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Quasi un grido: — La smetta di chiamarmi signor Chaney!

— Io sono… sono terribilmente dispiaciuta. Lei era perduto, per noi, come il maggiore Moresby. Abbiamo pensato…

Voltò le spalle alla donna e deliberatamente entrò nella stanza delle operazioni. Brian Chaney salì sul serbatoio di poliacqua, e scavalcò il bordo e infilò una gamba nel portello aperto del TDV. Non si preoccupò di spogliarsi o di togliersi gli stivali pesanti. Penetrò nel portello, e lo chiuse sopra il suo capo, e cercò la luce verde ammiccante. Non c’era nessuna luce. Chaney si distese sulla figlia, e spinse con forza con i talloni il pedale, sul fondo. Nessuna luce gli rispose.

Conobbe il panico, in quel momento.

Combatté contro quel panico cieco, e aspettò che i nervi si calmassero, aspettò che una quiete innaturale scendesse sopra di lui. Gli ritornò il ricordo di quel primo collaudo: allora aveva pensato che il veicolo somigliava a una stretta tomba soffocante, e adesso continuava a pensarlo. Disteso sulla griglia metallica per la prima volta… e aspettando che accadesse qualcosa di spettacolare… aveva provato un forte dolore alle gambe indolenzite, e aveva allungato le gambe per alleviare il dolore. I suoi piedi avevano colpito il pedale, rispedendolo all’inizio del collaudo, prima che i tecnici fossero stati pronti; erano stati molto in collera con lui. E un’ora più tardi, nella stanza della conferenza, tutti avevano visto e sentito i risultati della sua azione: il veicolo scaraventato indietro per la spinta dei suoi piedi, il rumore che aveva colpito i timpani e le luci che si erano affievolite per un istante. I tecnici, sbalorditi, avevano lasciato di corsa la stanza, e Gilbert Seabrooke aveva proposto di sottoporre all’Indic un nuovo programma di studio. Il TDV aspirava l’energia dal presente, e non dal passato, dal suo passato.

Chaney allungò la mano per chiudere bene il portello. Era chiuso. La luce che avrebbe dovuto ammiccare, la luce verde, era spenta e restava spenta. Chaney appoggiò i piedi al pedale, e spinse, spinse con forza. La luce rossa rimase spenta. Spinse di nuovo, poi scalciò con violenza. Dopo un momento si girò a guardare, attraverso la bolla di plastica, la stanza. Era illuminata fievolmente dalla lampada posata sulla soglia.

Camminò lentamente lungo il corridoio, alla luce fioca della lampada, camminò rigidamente, come in sogno, in uno stato di choc venato di paura. Il rifiuto del veicolo di muoversi dietro le sue sollecitazioni lo aveva come stordito. Desiderò disperatamente di trovare Katrina, desiderò di trovarla in piedi con una parola o un gesto ai quali lui potesse appigliarsi per avere speranza, ma Katrina non si vedeva nel corridoio. Lo aveva lasciato mentre lui aveva lottato con il veicolo, forse per ritornare nella stanza di addestramento, forse per uscire, forse per ritirarsi nel rifugio che divideva con suo figlio e sua figlia. Chaney era solo, e lottava contro il panico. La porta del laboratorio tecnico era aperta, come la porta del deposito, ma lei non lo aspettava là. Chaney ascoltò, sperando di udire la sua voce o il suo respiro, ma non udì niente, e proseguì, dopo un attimo di sosta. Il corridoio polveroso finì, e una rampa di scale lo condusse in alto, verso la porta delle operazioni.

Pensò che il vecchio cartello cancellato sulla porta fosse un’amara presa in giro… una delle tante che aveva conosciuto da quando era partito per Israele, un secondo prima. Maledisse il giorno in cui aveva letto e tradotto quei rotoli… ma nello stesso tempo desiderò disperatamente di conoscere l’identità dello scriba che si era divertito e aveva divertito i suoi colleghi creando il documento dell’Eschatos. Un solo nome sarebbe bastato: un Amos, o un Malachia, o un Ibico.

Allora avrebbe levato alto un bicchiere d’acqua attinto alla cisterna nabatea, e salutato il genio sconosciuto per la sua intelligenza e la sua saggezza, per la sua feroce ironia. Avrebbe gridato al cielo pulito di fresco:

— Ecco, maledetti i tuoi occhi, Ibico! Ecco, per i draghi morti da tanto tempo e per il recinto caduto e per il ghiaccio sui fiumi. Ecco, per la mia testa d’oro, il mio petto d’argento, le mie gambe di ferro e i miei piedi d’argilla. I miei piedi d’argilla, Ibico! — E avrebbe scagliato il bicchiere contro il TDV senza vita.

Chaney girò le chiavi nelle serrature, e spinse la porta, e uscì nella fredda aria notturna. L’oscurità lo sorprese; non si era reso conto di avere passato tante ore dolci e amare là dentro, con Katrina. Il parcheggio conteneva solo il carro e il fucile che lui aveva abbandonato I tigli eli Katrina non lo avevano aspettato, e Chaney si rese conto di provare un poco di dolore.

Si allontanò dall’edificio e poi si voltò a guardarlo: un massiccio tempio bianco di cemento, sotto i raggi della luna. Le legioni barbariche non erano riuscite ad abbatterlo, malgrado i danni prodotti in tutte le altre parti della base.

Il cielo fu la seconda sorpresa: l’aveva visto ili giorno e l’aveva trovato prodigioso, ma di notte era incredibilmente bello, di una bellezza sconvolgente. Le stelle erano luminose e fisse come gemme scintillanti e levigate, e ce n’erano cento e mille più di quante ne avesse mai viste prima; non aveva mai conosciuto un cielo simile, in tutta la sua vita. L’intero orizzonte orientale era illuminato dai raggi brillanti della luna sorgente.

Chaney rimase al centro del parcheggio, solo, guardando la faccia della luna, cercando il Mare dei Vapori e la depressione nota come il Cratere di Bode. Il laser che pulsava lassù attirò il suo sguardo e lo trattenne. Quella cosa, almeno, non era cambiata… quel monumento, almeno, non era stato distrutto. La lucciola luminosa lampeggiava ancora ai bordi del Cratere di Bode, indicando perennemente il luogo in cui due astronauti erano caduti, negli anni settanta, indicando per sempre la loro tomba, ricordandoli per sempre nell’infinito. Uno di loro era stato negro. Brian Chaney si considerò fortunato: lui aveva dell’aria da respirare, ma quegli uomini non ne avevano avuta.

Disse, a voce alta:

— Non eri poi così dannatamente astuto, Ibico! Quello l’hai trascurato… i tuoi profeti non ti hanno mostrato il nuovo segno nel cielo.

Chaney sedette sul carro inclinato e allungò le gambe per restare in equilibrio. Il fucile era uno scomodo gonfiore nella schiena, e lo mise da parte, per liberarsene. Dopo qualche tempo si sdraiò, appoggiato all’interno del carro. Tutto l’orizzonte di sud-est era davanti a lui; gran parte di quel cielo era davanti ai suoi occhi. Chaney pensò che avrebbe dovuto andare a cercare Katrina, e Arthur e Kathryn, e un posto per dormire. Forse l’avrebbe fatto, tra qualche tempo, ma non ora, non ora.

Un fuggevole pensiero gli passò per la mente: i tecnici avevano avuto ragione su una cosa: il serbatoio di poliacqua non aveva perduto.

Elwood Station era in pace.

Presentazione

Il nome di Arthur Wilson Tucker non viene citato frequentemente tra i più popolari scrittori di fantascienza, e il massimo riconoscimento della sua carriera è stato solo il John W. Campbell Memorial Award 1976, attribuito — in via eccezionale — retroattivamente proprio a questo L’anno del sole quieto (1970): romanzo che entrò in finale al premio Hugo ma che venne penalizzato sia per la straordinaria carica eversiva, sia per lo scottante argomento — il razzismo, più o meno velato — che per l’America appena reduce dall’assassinio di Martin Luther King, in preda ai disordini razziali e in piena confusione post-kennediana, era un elemento scomodo e certo assai più inquietante delle complicate storie future o dei problemi astratti e à la page dello spazio interno e dei movimenti più o meno femministi. Non c’è da meravigliarsi, perché nella letteratura mainstream in quegli anni accadeva di peggio: a favore dei votanti dei premi Hugo di quel perìodo si può dire che essi peccarono per ignoranza, non per malafede.