Robert J. Sawyer
L’equazione di Dio
A Nicholas A. DiChario e Mary Stanton, che erano lì per noi, quando abbiamo avuto il massimo bisogno di amici
È raro trovare scheletri fossili completi. È consentito integrare le pani mancanti, secondo le ipotesi del ricostruttore, ma, tranne per montaggi da esposizione, bisogna distinguere con chiarezza le parti che sono vero materiale fossile da quelle che rappresentano semplici congetture. Solo i fossili autentici sono vera testimonianza, in prima persona, del passato; i contributi del ricostruttore sono invece una sorta di narrazione in terza persona.
Nota dell’autore
Il Royal Ontario Museum esiste realmente e ha, com’è logico, un vero direttore, un vero consiglio d’amministrazione, vere guardie di sicurezza e via dicendo. Tuttavia i personaggi di questo romanzo sono interamente frutto della mia fantasia: nessuno di loro ha reale somiglianza con le persone che attualmente ricoprono o in passato hanno ricoperto incarichi presso il rom o qualsiasi altro museo.
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Lo so, lo so… pareva pazzesco che l’alieno fosse giunto a Toronto. Certo, la città attira il turismo; ma si penserebbe che una creatura di un altro mondo punti sulle Nazioni Unite o forse su Washington. Klaatu non andò a Washington, nel film di Robert Wise, Ultimatum alla Terra?
Naturalmente si potrebbe anche ritenere pazzesco che il regista di West Side Story abbia fatto un buon film di fantascienza. In realtà, ora che ci penso, Wise ha fatto tre film di fantascienza, ciascuno meno appassionante del precedente.
Ho divagato. Mi accade spesso, negli ultimi tempi, e mi scuso. No, non sono i primi segni di demenza senile: ho cinquantaquattro anni appena, santo cielo. Ma a volte il dolore rende difficile concentrarsi.
Parlavo dell’alieno.
E del perché giunse a Toronto.
Ecco tutta la storia…
La navetta dell’alieno atterrò davanti all’ex planetario McLaughlin, che si trova proprio accanto al Royal Ontario Museum, dove lavoro io. Ho detto “ex” perché quel taccagno di Mike Harris, premier dell’Ontario, ha tagliato i finanziamenti per il planetario. Ha deciso che i ragazzi canadesi non devono sapere niente dello spazio: un vero progressista, Harris. Una volta chiuso, il planetario fu affittato per un’esposizione pubblicitaria di Star Trek, con una copia del classico ponte dell’astronave posta nella sala d’osservazione delle stelle. Per quanto mi piaccia Star Trek, non riesco a immaginare un peggiore commento alle priorità educative canadesi. In seguito quell’area era stata presa in affitto da varie imprese del settore privato, ma in quel momento era deserta.
Forse era ragionevole che un alieno visitasse un planetario, ma in realtà quella creatura voleva proprio andare al museo. Un bene, in fin dei conti: pensate alla brutta figura che avrebbe fatto il Canada se l’ambasciatore extraterrestre, stabilito il primo contatto sul nostro territorio, avesse bussato alla porta e non avesse trovato nessuno in casa. Il planetario, con la bianca cupola che lo fa assomigliare a un gigantesco igloo, sorge di parecchio rientrato rispetto alla via, quindi ha davanti un vasto spiazzo di cemento… perfetto, per l’atterraggio di una piccola navetta spaziale.
Non ho assistito di persona all’atterraggio, anche se ero proprio nell’edificio accanto. Ma tre turisti e un mio concittadino hanno registrato su videocassetta l’avvenimento e le televisioni lo hanno trasmesso in tutto il mondo per parecchi giorni. La navetta era a forma di cuneo, sottile come la fetta di torta che prende chi finge di stare a dieta. Tutta nera, non aveva sistemi di scarico visibili ed era scesa silenziosamente dal cielo.
Era lunga forse trenta piedi. (Sì, lo so, in Canada si usa il sistema metrico decimale, ma io sono nato nel 1946: non credo che quelli della mia generazione, anche se scienziati come me, si siano facilmente adattati alla novità; cercherò di correggermi.) Lo scafo della navetta, anziché essere coperto di automatismi assortiti, come ogni nave spaziale di ogni film da Guerre stellari in poi, era completamente liscio. Appena la navetta si posò al suolo, nella fiancata si aprì un portello. Rettangolare, più largo che alto. Scivolò in su… immediato indizio che l’occupante quasi certamente non era umano: gli esseri umani fanno di rado portelli di quel tipo, considerando quant’è vulnerabile la testa.
Dopo qualche secondo uscì l’alieno. Pareva un gigantesco ragno bruno-dorato; aveva corpo sferico, delle dimensioni di un grosso pallone da spiaggia, e arti che sporgevano da tutte le parti.
Davanti al planetario, una Ford Taurus tamponò una Mercedes marrone: i rispettivi guidatori erano rimasti a bocca aperta davanti allo spettacolo. C’erano diversi passanti, che parvero stupefatti, più che atterriti, anche se alcuni si precipitarono giù per le scale della stazione della metropolitana, che ha due uscite davanti al planetario.
Il ragno gigante percorse la breve distanza che lo separava dal museo; il planetario era una sezione del rom e perciò i due edifici erano collegati da un camminamento soprelevato all’altezza del primo piano, mentre al livello stradale erano separati da un vicolo. Il museo fu costruito nel 1914, molto tempo prima che si cominciasse a parlare di problemi d’accessibilità. Nove larghi gradini portano alle sei porte a vetri principali; solo molto più tardi è stata aggiunta una rampa per disabili. L’alieno si fermò un momento, come per decidere quale via d’accesso prendere. Scelse la scalinata: le ringhiere della rampa erano un po’ troppo vicine per consentirgli un comodo passaggio, visto quanto sporgevano i suoi arti.
In cima alla scalinata, rimase di nuovo perplesso. Probabilmente viveva in un tipico mondo fantascientifico, pieno di porte che si aprono da sole. Adesso aveva di fronte la fila di porte a vetri; per aprirle, bisogna tirare, usando le maniglie tubolari, ma l’alieno pareva non capirlo. Subito dopo il suo arrivo, però, un ragazzo uscì dal museo e sulle prime non si rese conto di che cosa accadeva; poi, nel vedere l’extraterrestre, lanciò un grido di stupore. L’alieno, con calma, bloccò con un arto il battente aperto (adoperava sei arti per camminare e due, adiacenti, come braccia) e riuscì a entrare nel vestibolo. Si trovò davanti, a breve distanza, una seconda serie di porte a vetri: una intercapedine simile alle camere d’equilibrio, che permetteva un certo controllo sulla temperatura interna del museo. Capito ormai il funzionamento delle porte terrestri, l’alieno aprì una di quelle interne ed entrò nella Rotonda, l’ampio atrio ottagonale del museo caratteristico del rom, tanto che la rivista trimestrale riservata agli operatori del museo era chiamata “Rotonda” in suo onore.
Sul lato sinistro della Rotonda c’era la sala d’esposizione Garfield Weston, usata per mostre speciali; al momento ospitava la mostra di fossili del Burgess Shale, alla cui organizzazione avevo collaborato. Le due migliori raccolte mondiali di scisti fossiliferi si trovavano al rom e allo Smithsonian Institute; i due musei però di norma non le esponevano al pubblico. Avevo combinato di metterle insieme temporaneamente per esibirle prima qui, poi a Washington.
L’ala del museo a destra della Rotonda era stata un tempo la nostra rimpianta sala Geologia, ma ora ospitava negozi di articoli da regalo e una gastronomia Druxy… uno dei tanti sacrifici fatti dal rom, sotto la direzione di Christine Dorati, per divenire un’“attrazione”.