Avevo incaricato il personale di supporto di sistemare cinque telecamere su treppiede, per registrare ciò che Hollus mi avrebbe mostrato… sapevo che non gli piaceva che la gente guardasse da sopra le sue otto spalle, mentre lavorava, ma si era reso conto che, quando ci dava informazioni come pagamento, dovevamo farne una registrazione. Sistemai il proiettore d’ologramma nel centro della sala e battei un colpetto per evocare il genio forhilnor. Hollus ricomparve e per la prima volta ascoltai il suo linguaggio, mentre lui dava altre disposizioni al proiettore. Era simile a un canto, con Hollus che armonizzava con se stesso.
All’improvviso l’atrio lasciò posto a un incredibile panorama alieno. Come il simulacro di Hollus, pareva proprio reale: era come se fossi stato teletrasportato per venti e passa anni luce su Beta Hydri III.
— Questa è una simulazione, naturalmente — disse Hollus — ma la riteniamo accurata, anche se il colore degli animali è ipotizzato. Così appariva il mio pianeta settanta milioni di vostri anni fa, poco prima della più recente estinzione di massa.
Sentivo nelle orecchie il rombo del sangue. Battei il piede e tastai il solido e rassicurante pavimento della Rotonda Inferiore, l’unica prova che mi trovassi ancora a Toronto.
Il cielo era azzurro come quello della Terra, con nuvole simili a cumulonembi: evidentemente la fisica di un’atmosfera azoto-idrogeno con forte quantitativo di vapore acqueo era universale. Il panorama consisteva di alture ondulate e c’era un ampio stagno bordato di sabbia, situato all’incirca In un punto corrispondente alla base del totem Nisga. Il sole era dello stesso colore giallo chiaro del nostro e pareva più o meno della stessa grandezza. Mi ero documentato su Beta Hydri: la stella era 1,6 volte più grande della nostra e 2,7 volte più luminosa, quindi il pianeta dei Forhilnor orbitava a distanza maggiore dal sole, rispetto alla Terra.
Le piante erano verdi: la clorofilla, un altro composto che secondo Hollus mostrava segni di progettazione intelligente, era il processo chimico migliore per il suo compito, non importa in quale pianeta ci si trovasse. Le cose che avevano la funzione di foglie erano perfettamente rotonde, sostenute da un gambo centrale, E al posto della corteccia dove c’era l’equivalente del legno, i tronchi erano rivestiti di un materiale semitrasparente, simile al cristallo che copriva i globi oculari di Hollus.
Hollus era sempre visibile, in piedi accanto a me. Pochi degli animali che vedevo parevano basati sulla stessa struttura corporea del suo e in quei pochi gli otto arti erano indifferenziati: tutti usati per la locomozione, nessuno per la manipolazione. Le altre forme di vita per la maggior parte avevano cinque arti, non otto: presumibilmente si trattava dei pentapodi esotermici ai quali Hollus aveva accennato in precedenza. Alcuni pentapodi avevano zampe lunghissime che tenevano il corpo a grande altezza. Altri avevano zampe così tozze che il corpo sfiorava il terreno. Guardai, stupito, un pentapode usare le cinque zampe per stordire a calci un octopode e poi calare sulla vittima il proprio corpo, evidentemente munito di bocca nella parte inferiore.
Non c’erano creature volanti, anche se vidi pentapodi (che chiamai “parasoli”) muniti di membrane distese fra i cinque arti. Si paracadutavano dagli alberi e parevano in grado di controllare la discesa grazie al movimento di arti specifici, ravvicinati o distesi, allo scopo di posarsi sul dorso di pentapodi e di octopodi, per ucciderli mediante aculei ventrali velenosi.
Nessuno di quegli animali aveva peduncoli oculari come Hollus; mi domandai se quelle appendici non si fossero evolute più tardi, per consentire agli animali di scorgere se un “parasole” si preparava a lanciarsi su di essi. L’evoluzione, alla fin fine, è una corsa agli armamenti.
— Incredibile — dissi. — Un ecosistema completamente alieno.
Immagino che Hollus abbia sorriso, divertito. — La stessa impressione che ho avuto io quando sono giunto qui — disse il Forhilnor. — Anche se avevo visto altri ecosistemi, non c’è nulla di più sorprendente che incontrare esemplari di una diversa serie di forme di vita e vedere come interagiscono. Quello, ripeto, è il mio pianeta settanta milioni di vostri anni fa. Con la successiva estinzione di massa, tutti i pentapodi sono stati spazzati via.
Osservai un pentapode di media grandezza assalire un octopode un po’ più piccolo. Il sangue era dell’identico colore del sangue terrestre e le grida della creatura moribonda, per quanto bitonali, provenienti alternativamente dalle due bocche, parevano altrettanto piene di sofferenza e di terrore.
Il desiderio di non morire era un’altra costante universale, pareva.
7
Ricordo quel ritorno a casa, l’ottobre scorso, dopo la prima diagnosi del dottor Noguchi. Fermai l’auto nel vialetto. Susan era già a casa; le rare volte in cui andavo in macchina al lavoro, chi tornava a casa per primo accendeva la luce della veranda per indicare che il garage era già occupato. Naturalmente avevo preso 1 auto per andare nello studio del dottor Noguchi, tra la Finch e la Bayview.
Scesi dall’auto. Il vento soffiava foglie secche sul vialetto e sul prato. Salii i gradini dell’ingresso ed entrai. Dallo stereo proveniva The Kiss di Faith Hill. Ero rientrato più tardi del solito. Susan era affaccendata in cucina, sentivo il rumore di pentole e padelle. Attraversai l’ingresso a palchetto e risalii la mezza rampa di scale del soggiorno; di solito mi fermavo nello studio per dare un’occhiata alla posta (se Susan rincasa per prima, mette la posta nella bassa scaffalatura appena dentro lo studio) ma quel giorno avevo altro a cui pensare.
Susan uscì dalla cucina per darmi un bacio.
Mi conosceva bene, però, dopo tanti anni. — Cosa c’è che non va? — disse subito.
— Dov’è Ricky? — Dovevo dirlo anche a lui, ma sarebbe stato più semplice parlarne prima a Susan.
— Dagli Nguyen. — Gli Nguyen abitavano due case più avanti e avevano un figlio, Bobby, della stessa età di Ricky. — Cosa c’è?
Stringevo la ringhiera, ancora sconvolto dalla diagnosi. Con un gesto invitai Susan a sedersi con me sul divano. — Sue — dissi — oggi sono stato dal dottor Noguchi.
Mi guardava negli occhi, cercava di leggervi un messaggio. — Perché?
— La tosse. Ero andato da lui la settimana scorsa e mi ha fatto fare degli esami. Mi ha detto di tornare oggi per i risultati. — Mi avvicinai a lei, sul divano. — Non te ne avevo parlato, mi pareva roba di nessuna importanza.
Susan aggrottò le sopracciglia, preoccupata. — Ebbene?
Le presi la mano. Sentii che tremava. Inspirai a fondo, riempii d’aria i polmoni rovinati. — Ho un tumore. Ai polmoni.
Susan sbarrò gli occhi. — Dio mio — disse, scossa. — Cosa… cosa facciamo?
Scrollai le spalle. — Altri esami. La diagnosi si basa su materiale nel mio escreato, ma vogliono fare biopsie e altri esami per stabilire… per stabilire quanto è diffuso.
— Come? — disse Susan, con voce tremante.
— Come mi è venuto? — Alzai le spalle. — Noguchi pensa sia colpa di tutta la polvere minerale che ho inalato negli anni.
— Oddio — disse Susan, tremando. — Oddio mio.
Donald Chen aveva lavorato per dieci anni nel Planetario McLaughlin, prima che lo chiudessero; ma a differenza dei colleghi, aveva ancora l’impiego. Era stato trasferito al dipartimento programmi educativi, ma il rom non aveva attrezzature per l’astronomia e quindi Don aveva poco da fare… anche se ogni anno, in occasione delle Perseidi, la cbc mandava in onda il suo viso sorridente.
Per tutto il personale, Chen era “il cadavere ambulante”. Aveva già un colorito spaventosamente pallido (rischio professionale, per un astronomo) e pareva solo questione di tempo che il rom gli desse il benservito.