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Imparai però una lezione preziosa: non puoi scegliere il modo in cui ti metteranno alla prova.

Donald Chen e Hollus erano affascinati dalle supernovae, ma io ero più interessato a ciò che avevo discusso con il Forhilnor nei giorni precedenti. Appena Don uscì, dissi: — Allora, Hollus, a quanto pare voi sapete un mucchio di cose sul dna.

— Immagino sia vero — mi rispose.

— Cosa… — Mi s’inceppò la voce. Deglutii e riprovai.

— Cosa sapete sui problemi del dna, sugli errori nella sua replicazione?

— Non è il mio campo, ovviamente — disse Hollus — ma il nostro medico di bordo, Lablok, è ragionevolmente esperto in questo campo.

— E questo Lablok… — Deglutii. — Questo Lablok sa qualcosa del, ah, del cancro?

— Sul nostro pianeta la cura del cancro è una disciplina specialistica — disse Hollus. — Lablok ne sa qualcosa, è ovvio, ma…

— Potete curare il cancro?

— Lo curiamo con radiazioni e con prodotti chimici. A volte sono efficaci, spesso no. — Parve piuttosto rattristato.

— Come sulla Terra — sospirai. Rimasi in silenzio per un poco; mi ero augurato una risposta diversa, lo ammetto. Be’, pazienza. — A proposito di dna — ripresi — potrei avere un campione del tuo? Se non è faccenda troppo personale, beninteso. Mi piacerebbe studiarlo.

Hollus distese il braccio. — Prego, serviti pure!

Quasi ci restai secco. — Tu non sei realmente qui. Sei una semplice proiezione.

Hollus abbassò il braccio e mosse in un’onda a S i peduncoli oculari. — Scusa il mio umorismo — disse.

— Certo, se desideri dei campioni di dna, te li fornirò volentieri. Me li farò mandare giù dalla nave.

— Grazie.

— Posso dirti cosa troverai, però. Troverai che la mia esistenza è altrettanto improbabile della tua. Forme di vita così complesse non possono semplicemente essere sorte per caso.

Trassi un respiro profondo. Non volevo discutere con l’alieno, però, maledizione, lui era uno scienziato. Doveva sapere come va il mondo. Girai sulla poltroncina per avere di fronte il computer posto su quello che, quando avevo iniziato a lavorare lì, era il tavolino di una macchina per scrivere. Avevo una di quelle ingegnose tastiere divise della Microsoft: il museo aveva dovuto fornirle a chiunque ne facesse domanda, dopo che il personale aveva iniziato a denunciare casi di sindrome del tunnel carpale.

Il mio computer aveva un sistema Windows NT, ma passai sul dos e battei un comando. Iniziò un’applicazione che mostrò sul monitor una scacchiera.

— Questa è una normale scacchiera da gioco — dissi.

— Noi vi giochiamo due giochi di strategia: gli scacchi e la dama.

Hollus portò a contatto i globi oculari. — Degli scacchi ho sentito parlare; se ho ben capito, ritenevate la maestria in quel gioco uno dei massimi successi intellettuali dell’umanità, finché un computer non è riuscito a battere i più abili giocatori. Voi umani tendete a rendere del tutto elusiva la definizione d’intelligenza.

— Lo immagino — replicai. — Comunque, voglio parlare di qualcosa di più simile agli scacchi. — Premetti tan tasto. — Questa è una disposizione casuale di pezzi in gioco. — In circa un terzo delle 64 caselle spuntarono occupanti circolari. — Ora, guarda: ogni casella occupata è a contatto con altre otto caselle, giusto?

Hollus accostò di nuovo i globi oculari.

— Ora tieni presenti tre semplici regole: una data casella non subisce cambiamento, occupata o libera, se due caselle adiacenti sono occupate. Se una casella occupata ha adiacenti tre caselle occupate, rimane occupata. In tutti gli altri casi, la casella diventa vuota se non è già vuota; se è già vuota, rimane vuota. Chiaro?

— Sì.

—Bene. Ora, espandiamo la scacchiera. Invece di una matrice 8x8, ne usiamo una 400x300; su questo monitor, ogni casella è così rappresentata da una cella di due per due pixel. Indicheremo con celle bianche le caselle occupate e con celle nere le caselle libere.

Premetti un tasto: la scacchiera parve allontanarsi e nello stesso tempo estendersi fino ai quattro angoli dello schermo. La griglia della scacchiera scomparve, a quella risoluzione, ma il disegno casuale di celle illuminate e non illuminate era evidente.

— Ora — ripresi — applichiamo le nostre tre regole. — Premetti la barra spaziatrice e il disegno cambiò. — Di nuovo — dissi, ripetendo l’operazione, e il disegno cambiò. — Ancora una volta. — Un’altra nuova configurazione di puntini sullo schermo.

Hollus guardò lo schermo e poi me. — Ebbene?

— Ecco — dissi. Premetti un altro tasto e il procedimento iniziò a ripetersi in automatico: applicare le tre regole a ogni pezzo sulla scacchiera, mostrare la nuova configurazione, applicare di nuovo le regole, mostrare la configurazione modificata e così via.

Occorsero solo alcuni secondi perché comparisse il primo glider. — Vedi quel gruppo di cinque celle? — dissi. — Lo chiamiamo glider e… ah, ce n’è un altro. — Lo indicai, toccando lo schermo. — E ancora un altro. Guarda come si muovono.

Infatti parevano muoversi, rimanendo in gruppo, mentre passavano da una posizione all’altra.

— Se fai girare questa simulazione abbastanza a lungo — dissi — vedrai ogni sorta di disegni realistici; infatti questo gioco si chiama Game of Life, Fu inventato nel 1970 da un matematico, John Conway. Usavo questo gioco quando insegnavo teoria dell’evoluzione all’università di Toronto. Conway era stupito di ciò che generavano quelle tre semplici regole. Dopo un numero sufficiente di ripetizioni, comparirà una cosa detta “glider gun”, una struttura che a intervalli regolari spara nuovi glider. E in realtà i glider gun possono essere creati da collisioni di tredici o più glider, perciò, in un certo senso, i glider si riproducono. Si ottengono anche degli eater che possono spezzare oggetti di passaggio; nel procedimento, l’eater rimane danneggiato, ma dopo alcuni giri si ripara. Il gioco dà movimento, riproduzione, nutrizione, crescita, guarigione delle ferite e altro, tutto grazie all’applicazione di quelle tre semplici regole a una selezione inizialmente casuale di pezzi.

— Non capisco dove vuoi arrivare — disse Hollus.

— A questo: la vita, in tutta la sua apparente complessità, può essere generata da regole semplicissime.

— E queste regole che continui a ripetere cosa rappresentano esattamente?

— Be’, le leggi della fisica, per esempio…

— Nessuno mette in dubbio che un ordine apparente possa provenire dall’applicazione di regole semplici. Ma chi ha scritto le regole? Per l’universo che mi mostri, hai fatto un nome…

— John Conway.

— Sì. Bene, John Conway è il dio di quell’universo e tutta la sua simulazione dimostra solo che ogni universo necessita di un dio. Conway era il programmatore. Anche Dio era un programmatore; le leggi e le costanti fisiche da lui stabilite sono il codice sorgente del nostro universo. La presunta differenza fra il tuo signor Conway e il nostro Dio è che, come hai notato, Conway non sapeva che cosa il suo codice sorgente avrebbe prodotto finché non l’ha compilato ed eseguito e per questo si stupì dei risultati. Ammettiamo pure che le cose non siano andate esattamente come progettato… le estinzioni di massa sembrano indicarlo. Ciononostante, pare chiaro che Dio ha progettato deliberatamente l’universo.

— Ci credi davvero? — domandai.

— Sì — rispose Hollus, guardando altri glider danzare sullo schermo del mio computer. — Ci credo davvero.