L’alieno comunque andò rapidamente in fondo alla Rotonda, tra il banco delle ammissioni e quello di assistenza per i soci. Non ho visto di persona neppure questa parte, ma la scena fu registrata da una telecamera della sicurezza; per fortuna, perché altrimenti nessuno ci avrebbe creduto. L’alieno arrivò, camminando di sghembo, davanti all’agente della sicurezza in blazer blu (Raghubir, un sikh brizzolato e affabile, da una vita alle dipendenze del rom) e disse in perfetto inglese: — Mi scusi, vorrei vedere un paleontologo.
Raghubir sgranò gli occhi, ma si riprese in fretta. Più tardi disse d’avere pensato a uno scherzo. A Toronto girano molti film e, per chissà quale motivo, una quantità enorme di serie televisive di fantascienza, comprese, negli anni, cose come Gene Roddenberry’s Earth: Final Conflict, Ray Bradbury Theater e la rinata Twilight Zone. Raghubir pensò che fosse una comparsa in costume o un aggeggio scenico animato. — Che tipo di paleontologo? — disse, impassibile, per stare allo scherzo.
Il corpo sferico della creatura ballonzolò. — Un paleontologo piacevole, immagino — rispose l’alieno.
Nel video si vede il vecchio Raghubir tentare, senza riuscirci appieno di tenere a freno un sorriso. — Volevo dire, vuole un invertebrato o un vertebrato?
— Non tutti i vostri paleontologi sono umani? — domandò l’alieno. Parlava in modo curioso, ma ci arriveremo. — Ci sarebbero quindi anche i non vertebrati?
Lo giuro, è tutto nel video.
— Sono tutti umani, naturalmente — disse Raghubir. Intanto si era radunata una piccola folla di visitatori e un altro gruppo, per quanto non inquadrato, di sicuro guardava dalla galleria interna del piano superiore la scena che si svolgeva sul lucido pavimento di marmo della Rotonda. — Alcuni però si specializzano in fossili di vertebrati e altri di invertebrati.
— Oh — disse l’alieno. — Una distinzione artificiosa, a mio parere. Uno qualsiasi andrà bene.
Raghubir prese il telefono e compose il numero del mio interno. Su nel Centro Amministrativo, nascosto dietro l’orripilante nuova Galleria Inco Limited di Scienze Terrestri (la quintessenza del modo in cui Christine vede il rom) risposi all’apparecchio. — Jericho.
— Dottor Jericho — disse Raghubir, con la sua particolare inflessione — c’è qui un tale che desidera vederla.
Rivolgersi a un paleontologo non è come chiedere un incontro con un alto dirigente, certo, e preferiremmo che si prendesse un appuntamento, ma siamo dipendenti pubblici, lavoriamo per quelli che pagano le tasse. Tuttavia… — Chi è?—domandai.
Raghubir esitò. — Penso sia meglio che venga a vedere di persona, dottor Jericho.
Bene, il cranio di Troodonte che Phil Curie ci aveva spedito dal museo Tyrrell aveva aspettato pazientemente settanta milioni di anni; poteva aspettare ancora qualche minuto. — Arrivo — dissi. Lasciai l’ufficio e scesi, passando davanti alla Galleria Inco… Dio, quanto la odio, con gli insultanti murales a fumetti, il gigantesco vulcano finto e il pavimento che vibra… e attraversai la Galleria Currelly, entrai nella Rotonda e…
Oddio.
Oh, Cristo!
Rimasi impietrito.
Forse Raghubir non riconosceva la differenza fra la carne vera e un costume di gomma, ma io sì. La creatura ferma accanto al banco d’ammissione era un’autentica entità biologica. Non ne avevo il minimo dubbio. Era una forma di vita…
Avevo studiato la vita sulla Terra fin dalle origini, nel cuore del precambriano. Avevo visto spesso fossili che rappresentavano nuove specie o nuovi generi, ma non avevo mai visto alcun animale di grandi dimensioni che rappresentasse un phylum del tutto nuovo.
Fino a quel momento.
La creatura era indubbiamente una forma di vita e, altrettanto indubbiamente, non si era mai evoluta sulla Terra.
Ho già detto che pareva un grosso ragno; così l’avevano descritta quelli che per primi l’avevano vista, dal marciapiede. Ma era molto più complessa di un ragno. Malgrado la superficiale somiglianza con gli aracnidi, l’alieno aveva chiaramente uno scheletro interno. Gli arti erano coperti di pelle piena di bolle, che rivestiva la muscolatura rigonfia: non erano certo le sottili zampe dell’esoscheletro di un artropode.
Ogni moderno vertebrato terrestre ha quattro arti (oppure, come nel caso dei serpenti e dei cetacei, si è evoluto da una creatura che li aveva) e ogni arto termina in non più di cinque dita. Gli antenati di quella creatura erano chiaramente sorti in un altro oceano, su un altro pianeta: l’alieno aveva otto arti, disposti radialmente intorno al corpo centrale, e due degli otto servivano da mani e terminavano in sei dita a tripla articolazione.
Sentivo il cuore battere forte e avevo difficoltà a respirare.
Un alieno!
E senza dubbio un alieno intelligente! Il corpo sferico della creatura era nascosto da un indumento, quella che pareva una lunga striscia di stoffa azzurro vivo, avvolta varie volte intorno al tronco, passando fra un arto e l’altro per lasciarli sporgere. I lembi dell’indumento erano chiusi, fra le braccia, da un disco adorno di pietre preziose. Non mi è mai piaciuto portare la cravatta, ma so fare il nodo e ci riesco anche senza guardarmi allo specchio (meglio così, di questi tempi): nell’indossare ogni mattina quel suo indumento, probabilmente l’alieno trovava le stesse difficoltà che ho io ad annodarmi la cravatta.
Dai lembi di stoffa sporgevano anche due sottili tentacoli che terminavano in quelli che forse erano occhi: due globi iridescenti ricoperti di un rivestimento duro, cristallino. Quei due peduncoli ondeggiavano lentamente avanti e indietro, si avvicinavano e poi si allontanavano molto l’uno dall’altro. Mi domandai quale fosse la profondità di percezione di quella creatura: non c’era distanza fissa, tra i suoi due globi oculari.
L’alieno non parve minimamente allarmato dalla mia presenza o da quella delle altre persone nella Rotonda, anche se faceva ballonzolare un poco il tronco, in quello che mi augurai non fosse ostentazione di possesso territoriale. A dire il vero, era un movimento quasi ipnotico: lentamente il tronco si sollevava e si abbassava, mentre le sei zampe si flettevano e si rilassavano e i peduncoli oculari si avvicinavano e si allontanavano. Ancora non avevo visto il video della conversazione fra l’alieno e Raghubir; pensai che forse si trattava di un tentativo di comunicare, un linguaggio di movimenti del corpo. Forse, mi dissi, avrei dovuto flettere le ginocchia e addirittura (trucco imparato al campeggio estivo una quarantina d’anni prima) incrociare e disincrociare gli occhi. Ma le telecamere della sicurezza ci inquadravano: se la mia ipotesi era sbagliata, avrei fatto la figura dell’idiota nei notiziari di tutto il mondo. Eppure dovevo fare qualche tentativo. Alzai la destra, palma in fuori, in un amichevole gesto di saluto.
L’alieno copiò subito il mio gesto: piegò un braccio in uno dei due punti d’articolazione e allargò le sei dita all’estremità. E poi accadde una cosa incredibile. Una fessura verticale si aprì nel segmento superiore delle due gambe più vicine a me e dalla fessura di sinistra provenne la sillaba “sal” e da quella di destra, in tono lievemente più basso, la sillaba “ve”.
Rimasi a bocca aperta; dopo un istante, lasciai ricadere la mano.
L’alieno continuò a ballonzolare e a muovere avanti e indietro i peduncoli oculari. Riprovò: dalla gamba sinistra provenne “bon” e dalla destra “jour”.
Era un’ipotesi ragionevole: la maggior parte dei cartelli del museo sono in due lingue, inglese e francese. Scossi leggermente la testa, incredulo, poi cominciai ad aprire bocca (e non ho idea di che cosa stessi per dire) ma la chiusi subito, non appena l’alieno parlò di nuovo. Le sillabe rimbalzarono dalla bocca sinistra e dalla bocca destra, come una pallina in una partita di ping-pong: “Auf “Wie” “der” “sehen”.