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Fra tre anni, Ricky ne avrebbe avuti nove. Avrei dato qualsiasi cosa per vederlo. Avrei dato qualsiasi cosa per riavere quei tre anni buttati via.

No, niente tv.

Potevo leggere un libro. Rimpiangevo sempre di non poter dedicare più tempo alla lettura per diletto. Oh, passavo un’ora e mezzo ogni giorno in metropolitana a sfogliare monografie scientifiche e bozze di notiziari riguardanti il lavoro, per tenermi aggiornato; ma era passato molto tempo da quando avevo aperto un romanzo. Per Natale avevo ricevuto Vedova per un anno di John Irving e A Witness to Life di Terence M. Green. Potevo iniziare uno dei due quella sera. Ma chissà se sarei riuscito a terminarlo. Già così avevo un mucchio di roba da sistemare.

Di solito quando Susan era fuori ordinavo una pizza, da Dante’s, al quale un giornale locale aveva attribuito un premio per la pizza più pesante… una Dante’s con fettine di salame così piccante che ti restava nell’alito per almeno due giorni. A Susan non piaceva la pizza di Dante’s (riempiva troppo, bruciava troppo) perciò, se c’era lei, ordinavamo pizze meno fantasiose al locale che per Toronto è una istituzione, il Pizza Pizza.

La chemioterapia però mi aveva tolto gran parte dell’appetito; quella sera non potevo affrontare la pizza di nessuno.

Avrei potuto guardare un film porno; ne avevamo alcune cassette, comprate per scherzo qualche anno prima e guardate di rado. Ma no, la chemioterapia aveva ucciso in me anche quel desiderio, spiace dirlo.

Mi sedetti sul divano e fissai la mensola del caminetto, con la fila di piccole fotografie incorniciate: Susan e io il giorno delle nozze; Susan con Ricky in braccio, poco dopo l’adozione; io nei calanchi dell’Alberta, col piccone in pugno; la foto in bianco e nero riportata nel mio unico libro, Dinosauri canadesi; i miei genitori, circa quarant’anni fa; il padre di Susan, corrucciato come al solito; tutt’e tre… Susan, Ricky e io… nella foto usata un anno per gli auguri di Natale.

La mia famiglia. La mia vita.

Mi appoggiai alla spalliera. Il rivestimento del divano era logoro; avevamo comprato quel mobile dopo sposati. Sarebbe dovuto durare un po’ di più…

Ero completamente solo. Forse non avrei mai avuto un’altra occasione. Ma non potevo. Non potevo.

Per tutta la vita ero stato un razionalista, un umanista laico, uno scienziato.

Dicono che Carl Sagan sia rimasto ateo fino all’ultimo. Anche sul letto di morte, non si convertì, non ammise la possibilità che ci fosse mai stato un Dio personale, bene o male interessato al fatto che lui vivesse o morisse.

Eppure… eppure avevo letto il suo romanzo, Contact. Avevo visto anche il film, se per questo, ma il film annacquava il messaggio del romanzo. Il libro non era ambiguo: diceva che l’universo era stato progettato, ordinato. Concludeva con le parole: “C’è una intelligenza che precede l’universo”. Sagan forse non credeva al Dio della Bibbia, ma concedeva almeno la possibilità che ci fosse un creatore.

O no? Carl non era obbligato a credere ciò che aveva scritto nel suo unico romanzo, non più di quanto George Lucas fosse obbligato a credere nella Forza.

Anche Stephen Jay Gould aveva lottato contro il cancro, un mesotelioma addominale che gli era stato diagnosticato nel luglio del 1982. Aveva avuto fortuna, aveva vinto. Gould, come Richard Dawkins, aveva una concezione della natura puramente darwiniana… anche se i due non erano d’accordo sugli esatti particolari. Gould però non disse mai se la religione l’aveva aiutato a superare la malattia. Tuttavia, una volta guarito, aveva scritto un nuovo libro, Rocks of Ages: Science and Religion in the Fullness of Life, nel quale sosteneva che lo scientifico e lo spirituale sono due campi separati, due “magisteri senza punti di sovrapposizione”… un tipico pezzo di gergo gouldiano. Chiaramente, però, questioni più grandi lo avevano preoccupato durante il suo scontro con il grande C.

Adesso era il mio turno.

Sagan era rimasto risoluto fino alla fine, pareva. Gould forse aveva ondeggiato, ma alla fine era tornato il vecchio se stesso, il perfetto razionalista.

E io?

Sagan non aveva dovuto combattere con visite di un alieno la cui grandiosa teoria unificata indicava l’esistenza di un creatore.

Gould non aveva conosciuto le progredite forme di vita di Beta Hydri o di Delta Pavonis, che credevano in Dio.

Io sì, invece.

Parecchi anni prima avevo letto un libro intitolato The Search of God at Harvard. Ero stato incuriosito dal titolo più che dal contenuto, che raccontava le esperienze di Ari Goldman, un giornalista del “New York Times” che per un anno aveva frequentato la scuola di teologia di Harvard. Se io avessi voluto cercare fossili dell’esplosione cambriana, sarei andato al parco nazionale di Yoho; se avessi voluto cercare gusci d’uova di dinosauro, sarei andato nel Montana o in Mongolia. Quasi tutte le cose richiedono che tu vada da esse, ma Dio. Dio, se è onnipresente… dovrebbe essere una cosa che puoi cercare ovunque: a Harvard, nel Royal Ontario Museum, in una Pizza Hut nel Kenya.

In effetti mi pareva che, se Hollus aveva ragione, chiunque doveva riuscire in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, a scostare un lembo di tendaggio e a mettere così in mostra il macchinario di Dio.

“Non badare a quell’uomo dietro il sipario…”

E io non vi avevo badato. L’avevo trascurato completamente.

Ora, però, in quel preciso momento, ero solo.

Oppure…

Cristo, non avevo mai avuto di simili pensieri! Ero più debole di Sagan? Più debole di Gould?

Li avevo conosciuti tutti e due, negli anni; Carl aveva tenuto conferenze all’università di Toronto; e avevamo invitato Stephen al rom ogni volta che pubblicava un nuovo libro; fra qualche settimana sarebbe venuto di nuovo a parlare in concomitanza con l’esposizione Burgess Shale. Ero rimasto sorpreso nel vedere quanto era alto Carl, ma Stephen era proprio l’ometto tondo che avevano dipinto come uno dei Simpson.

Fisicamente nessuno dei due pareva più forte di me… di come ero di solito io.

Ora, però, forse ero davvero più debole di loro.

Maledizione, non volevo morire!

I vecchi paleontologi non muoiono mai, dice la storiella. Ma di sicuro sono pietrificati dalla morte.

Mi alzai dal divano. Sul tappeto del soggiorno non c’erano tanti ostacoli: Ricky migliorava, nel rimettere a posto i giocattoli.

Non dovrebbe avere importanza dove lo fai.

Guardai dalla finestra del soggiorno. Ellerslie Street era una magnifica vecchia via in quella che, quand’ero ragazzo, si chiamava Wiliowdale; era fiancheggiata da alberi annosi. Un passante avrebbe dovuto fare uno sforzo per vedere in casa.

Tuttavia…

Andai a chiudere le tende. La stanza divenne più buia. Accesi una delle lampade a stelo. Diedi un’occhiata all’orologio luminoso del videoregistratore: avevo temilo, prima che Susan e Ricky tornassero a casa.

Volevo proprio farlo?

Non c’era posto per un creatore, nel programma di studi che avevo insegnato all’università di Toronto. Il rom era uno dei musei più eclettici del mondo, eppure, per quanto il mosaico del soffitto ne proclamasse la missione, “Affinché tutti possano conoscere il Suo operato”, non aveva una sala specifica dedicata a Dio.

No, certo, avrebbero detto i fondatori del rom. Il creatore è in ogni luogo.

In ogni luogo. Anche qui.

Sospirai, esalando l’ultimo brandello di resistenza.

E mi inginocchiai sul tappeto, accanto al caminetto, sotto lo sguardo cieco e indifferente delle fotografie della mia famiglia.

Cominciai a pregare.