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Fermi nel vicolo fra il rom e il planetario, osservammo la navetta atterrare; la Passeggiata del Filosofo non era la sorta di luogo dove fosse piacevole aggirarsi di notte. Hollus, un secondo Forhilnor e due Wreed emersero rapidamente dalla navetta nera a forma di cuneo. Hollus portava lo stesso indumento blu sfoggiato il giorno del nostro primo incontro; l’altro Forhilnor vestiva in nero e oro. I quattro alieni portavano parti di un’apparecchiatura che pareva assai complessa. Li salutai e li accompagnai in fretta nel vicolo e poi nel museo, entrando dall’ingresso del personale. Quell’ingresso era a livello della strada, ossia al pianterreno del museo (l’ingresso pubblico principale, con tutti quegli scalini esterni, portava in realtà al primo piano). Lì era di servizio una guardia, che leggeva una rivista invece di tenere d’occhio le immagini in bianco e nero delle telecamere della sicurezza.

— Meglio staccare gli allarmi — disse Christine alla guardia. — Se dobbiamo stare qui tutta la notte, sono sicura che gireremo in varie parti dell’edificio. — La guardia annuì e premette alcuni pulsanti sul quadro di comando.

Ci avviammo nel museo, per la maggior parte buio. I Wreed, oltre alle cinture gialle porta-utensili che avevo già visto, portavano delle bizzarre imbracature che passavano fra le quattro braccia. — Cos’è quella roba? — domandai a Hollus.

— Un generatore di campo di repulsione. Li aiuta nei movimenti: la gravità terrestre è più elevata di quella del loro pianeta.

Prendemmo l’ascensore per il primo piano… occorsero due viaggi per trasportare tutti, poiché ci stava solo un Forhilnor per volta. Andai col primo gruppo; Hollus, che mi aveva visto usare gli ascensori varie volte, venne col secondo (far capire ai Wreed che i piani potevano essere rappresentati da un numero, disse, avrebbe richiesto troppe spiegazioni). I due Wreed rimasero particolarmente impressionati dai due enormi totem di cedro rosso. Salirono fino al terzo piano, sulle scale che giravano intorno ai totem, e tornarono al primo. Allora guidai tutti dall’altra parte della Rotonda, alla sala Garfield Weston. Mentre procedevamo, Hollus muoveva le due bocche a folle velocità, parlando nella sua lingua. Probabilmente faceva le veci del cicerone e spiegava all’altro Forhilnor e ai Wreed.

Ero incuriosito sul secondo Forhilnor, il cui nome, mi dissero, era Barbulkan. Era più grosso di Hollus e aveva un arto scolorito.

I chiavistelli erano alla base della doppia porta a vetri. Mi chinai con un grugnito, mi servii della chiave in dotazione e spinsi i battenti finché non scattarono i fermi che li tenevano aperti. Entrai e accesi le luci. Gli altri mi seguirono nella sala. I due Wreed confabularono sottovoce. Dopo alcuni istanti parvero giungere a un accordo. Naturalmente non dovevano girarsi per parlare a una persona alle loro spalle, ma uno dei due si rivolgeva chiaramente a Hollus: emise rumore d’acciottolio che, l’attimo dopo, fu tradotto nella musicale lingua dei Forhilnor.

Hollus si accostò a me. — Sono pronti a sistemare l’apparecchiatura per la prima bacheca.

Andai avanti e usai un’altra chiave sulla prima bacheca, sbloccando il coperchio di vetro e ribaltandolo. Il cardine si bloccò al punto di massima apertura. Non c’era nessuna possibilità che la lastra di vetro ricadesse, mentre la gente lavorava… forse in passato i musei non avevano sempre preso appropriate precauzioni per salvaguardare i propri impiegati, ma adesso le prendevano.

Lo scanner consisteva in un grosso supporto metallico dal quale sporgeva una decina di complessi bracci snodabili che terminavano con una sfera trasparente, grande come un pallone da softball. Un Wreed era impegnato a mettere in posizione i bracci… alcuni sopra la bacheca, altri sotto, la maggior parte ai lati… mentre l’altro Wreed faceva numerose regolazioni su un pannello di comando pieno di spie luminose, agganciato al sostegno. Pareva poco contento dei risultati e continuava a manipolare i comandi.

— È un lavoro delicato — disse Hollus. — Scandire a questa risoluzione richiede vibrazioni ridotte al minimo. Mi auguro che i treni della metropolitana non ci causino difficoltà.

— Fra breve smetteranno di circolare per la notte — disse Christine. — Dalla sala proiezioni del rom si sentono passare, ma non mi sono mai accorta che facciano vibrare il resto del museo.

— Probabilmente andrà tutto bene — disse Hollus. — Ma dovremmo anche evitare l’uso dell’ascensore, durante le scansioni.

L’altro Forhilnor disse qualcosa; Hollus si rivolse a Christine e a me, con un: — Vogliate scusarci. — I due Forhilnor andarono dall’altra parte della sala e aiutarono a spostare un altro pezzo di macchinario. Hollus non avrebbe manovrato lo scanner, era chiaro, ma veniva utile per il resto.

— Straordinari — disse Christine, guardando gli alieni che si muovevano per la sala.

Non me la sentivo di chiacchierare con lei, ma in fin dei conti era il mio superiore. — Davvero — dissi, senza troppa convinzione.

— Non credevo all’esistenza di alieni, sai — riprese Christine. — Oh, so benissimo ciò che sostenete voi biologi… la Terra non ha niente di speciale, dovrebbe esserci vita dappertutto e via di questo passo. Eppure, nel mio intimo, ho sempre pensato che eravamo soli nell’universo.

Decisi di non discutere sul fatto che il nostro pianeta avesse o no qualcosa di speciale. — Sono felice che siano qui — dissi. — Sono felice che siano venuti a farci visita.

Christine sbadigliò… un vero spettacolo, con la sua bocca da cavallo, anche se lei cercò di nasconderla col dorso della mano. Si era fatto tardi ed eravamo solo all’inizio. — Scusa — disse, al termine dello sbadiglio. — Vorrei che ci fosse un modo per indurre Hollus a fare qualche programma pubblico, qui. Potremmo…

In quel momento Hollus ci raggiunse di nuovo. — Sono pronti per la prima scansione — disse. — L’apparecchiatura funzionerà in automatico e sarebbe meglio se uscissimo dalla sala per evitare vibrazioni.

Tornammo tutti nella Rotonda, — Quanto ci vorrà per la scansione? — domandai.

— Circa quarantatré minuti per la prima bacheca — rispose Hollus.

— Be’, è inutile stare qui in giro — disse Christine. — Perché non diamo un’occhiata ai manufatti dell’Estremo Oriente? — Anche quelle sale erano al pianterreno, a poca distanza da lì.

Hollus si rivolse agli altri alieni, presumibilmente per avere il loro consenso. — Buona idea — disse poi.

Lasciai che Christine ci precedesse; era il suo museo, in fin dei conti. Attraversammo in diagonale la Rotonda, ripassando davanti ai totem, ed entrammo nelle sale T.T. Tsui di Arte Cinese (prendevano il nome dall’uomo d’affari di Hong Kong che con la sua donazione le aveva rese possibili); il rom aveva la più bella collezione di manufatti cinesi del mondo occidentale. Percorremmo le sale con le bacheche piene di ceramiche, bronzi e giade ed entrammo nella zona della Tomba Cinese. Per decenni la tomba era rimasta all’esterno, esposta alle intemperie di Toronto, ma adesso era all’interno, al pianterreno delle gallerie a terrazza del rom. La parete esterna, di vetro, guardava su una Bloor Street sdrucciolevole e bagnata; era fronteggiata da un Pizza Hut e da un McDonald’s sul lato opposto della via. Sul tetto a lucernario in lieve pendenza batteva la pioggia.

Le componenti della tomba… due arcate gigantesche, due cammelli di pietra, due colossali figure umane e l’enorme cupola tumulo… non erano cintate da corde di velluto. L’altro Forhilnor, Barbulkan, allungò la mano a toccare le sculture dell’architrave più vicino. Immaginai che se si lavorava soprattutto in telepresenza, toccare con mano le cose dava un brivido particolare.

— Questi pezzi di tomba — disse Christine, ferma accanto a uno dei cammelli di pietra — furono acquistati dal museo nel 1919 e 1920 da George Crofts, un inglese che commerciava in pellicce e oggetti d’arte, di stanza a Tianjin. In teoria provenivano dalla necropoli di Fengtaizhuang, nella provincia di Hebei, e si dice appartenessero al famoso generale Zu Dashou, della dinastia Ming, morto nel 1656.