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L’oggetto nero si muoveva nel firmamento rotolando come una ruota a raggi, come se (non era possibile; no, non era possibile) le sue sei estensioni trovassero appoggio sul tessuto stesso dello spazio. L’oggetto si muoveva verso il disco in contrazione di Betelgeuse. La prospettiva era ingannevole… solo quando una delle sei estensioni della massa nera toccò e poi coprì il bordo del disco, fu chiaro che l’oggetto era un po’ più vicino alla Terra di Betelgeuse.

Mentre la stella continuava a collassare, l’oggetto nero si frappose ancora, fino a eclissare in breve Betelgeuse. Da terra vedemmo tutti che la stella superluminosa era scomparsa; il sole non aveva più un rivale nel cielo diurno. Grazie ai telescopi della Merelcas, però, la forma nera era chiaramente visibile, una macchia d’inchiostro dalle molte braccia contro lo sfondo di una spolverata di stelle. E poi…

E poi Betelgeuse si comportò di sicuro come Chen aveva detto che avrebbe fatto, esplose dietro la massa nera, con più energia di cento milioni di soli. Vista da mondi sul lato opposto, la grande stella era di sicuro avvampata enormemente, un’eruzione di luce accecante e di calore cauterizzante, accompagnata da urla di disturbi radio. Ma dalla Terra…

Dalla Terra tutto ciò era invisibile. La macchia d’inchiostro però parve proiettarsi avanti, verso l’occhio dei telescopi, come se fosse stata colpita da dietro, e la chiazza centrale si dilatò a riempire una parte maggiore del campo visivo, mentre si avvicinava a grande velocità. Le sei braccia, nel frattempo, furono soffiate indietro, come i tentacoli di una seppia spinta a testa avanti dal getto d’inchiostro.

Qualsiasi cosa fosse quell’oggetto, sopportò il peso maggiore dell’esplosione, schermando la Terra e presumibilmente anche i pianeti dei Forhilnor e dei Wreed, dal colpo che altrimenti avrebbe distrutto lo strato di ozono del nostro pianeta e dei loro.

Fermi fuori del rom, non sapevamo che cosa fosse accaduto… non ancora, non a quel tempo. Ma a poco a poco su di noi albeggiò la comprensione, anche se non la supernova. In qualche modo, i tre pianeti sarebbero stati risparmiati.

La vita sarebbe continuata. Incredibilmente, miracolosamente, la vita sarebbe continuata.

Per alcuni, almeno.

31

Alla fine riuscii a tornare a casa, quella sera; era giunta voce, ai rifugiati nella metropolitana, che in qualche modo il disastro era stato evitato. Alle otto presi un treno pieno zeppo, diretto a sud, alla stazione Union; salii a bordo anche a costo di stare in piedi per tutto il percorso. Volevo vedere Susan, volevo vedere Ricky.

Susan mi abbracciò con tanta forza da farmi male e anche Ricky mi abbracciò e andammo tutti sul divano e Ricky mi si sedette sulle ginocchia e ci abbracciammo ancora, una famiglia.

Alla fine Susan e io mettemmo a letto Ricky; gli augurai con un bacio la buona notte… a mio figlio, al figlio che amavo con tutto il cuore. Malgrado tutte le traversie che aveva passato negli ultimi tempi, era ancora troppo giovane per capire che cos’era accaduto quel giorno.

Susan e io tornammo sul divano e alle dieci guardammo le immagini riprese dai telescopi della Merelcas, trasmesse come servizio d’apertura del telegiornale. Peter Mansbridge pareva più acido del solito, méntre commentava il rischio che aveva corso la Terra quel giorno. Dopo avere mostrato le riprese, si unì a lui nello studio Donald Chen del ROM (il centro trasmissioni della cbc era più o meno a sud del museo) per spiegare nei particolari che cos’era accaduto e confermare che l’anomalia nera (fu quella, la parola usata da Don) era tuttora frapposta fra la Terra e Betelgeuse e ci schermava.

Mansbridge chiuse l’intervista dicendo: — A volte siamo fortunati, immagino. — Si rivolse alla telecamera. — Le altre notizie di oggi…

Non c’erano altre notizie… nessuna che importasse minimamente, nessuna paragonabile a ciò che era accaduto quel pomeriggio.

A volte siamo fortunati, aveva detto Mansbridge. Circondai col braccio Susan, la tirai accanto a me, sentii il calore del suo corpo, il profumo del suo shampoo. Pensai a noi due insieme e non, per una volta, al poco tempo che ci restava, ma a tutti i giorni meravigliosi che avevamo avuto in passato.

Mansbridge aveva ragione. A volte siamo davvero fortunati.

Mi venne in mente il giorno dopo, durante il tragitto per andare al museo; chiarissima, mi balenò una rivelazione.

Ero in ufficio da più di un’ora, quando finalmente comparve il simulacro di Hollus. Avevo atteso con impazienza che comparisse.

— Buon giorno, Tom — disse Hollus. — Voglio scusarmi per l’asprezza delle mie parole di ieri. Erano dovute…

— Non pensarci più — la interruppi. — Diventiamo tutti un po’ matti, quando ci rendiamo conto che potremmo essere in punto di morte. — Non m’interruppi, non le permisi di prendere il comando della conversazione. — Dimenticatene. Una cosa però mi è venuta in mente stamattina, mentre ero sul treno, impacchettato con tutti gli altri. E l’arca? L’astronave partita da Groombridge 1618 verso Betelgeuse?

— Di sicuro sarà rimasta incenerita — disse Hollus. Parve triste. — Sarà bastato il primo spasmo della stella morente.

— No, non è successo così — dissi, ancora stordito dall’enormità dell’idea. — Maledizione, avrei dovuto capirlo prima… e anche lui avrebbe dovuto capirlo.

— Lui, chi? — disse Hollus.

Non glielo dissi… non ancora. — I nativi di Groombridge non hanno abbandonato il loro pianeta — ripresi. — Sono trascesi in un reame virtuale, proprio come gli altri.

— Sul loro pianeta non abbiamo trovato segnali d’avvertimento — disse Hollus. — E poi, perché mandare un’astronave verso Betelgeuse? Ipotizzi che contenesse una fazione che non voleva trascendere?

— Nessuno sarebbe andato a Betelgeuse per vivere lì. Come hai detto, non è un posto adatto. E quattrocento anni luce sono una distanza spaventosamente lunga, solo per avere una spinta gravitazionale. No, sono sicuro che l’astronave da voi rilevata non aveva né equipaggio né passeggeri; tutti i nativi di Groombridge sono tuttora sul loro pianeta, scaricati in un mondo di realtà virtuale. Ciò che hanno inviato verso Betelgeuse era un’astronave senza equipaggio, contenente un imprecisato catalizzatore, un qualcosa che scatenasse l’esplosione in supernova della stella.

Hollus smise di muovere i peduncoli oculari. — Scatenare? Perché?

Avevo la testa confusa: la mia idea era pazzesca. Guardai la Forhilnor. — Per sterilizzare tutti i pianeti in questa parte della galassia — dissi. — Per spazzarne ogni forma di vita. Se tu avessi in progetto di seppellire alcuni computer e poi trasferirvi la tua coscienza, di che cosa avresti paura? Be’, di qualcuno che venisse a riportare alla luce i computer e li danneggiasse. In molti dei mondi visitati dalla vostra astronave, c’erano segnali d’avvertimento per spaventare i visitatori affinché non riportassero alla luce ciò che era sepolto. Su Groombridge hanno deciso di fare di meglio. Hanno tentato di assicurarsi che nessuno, neppure una razza di una stella vicina, interferisse col loro progetto. Sapevano che Betelgeuse, la più grossa stella della zona, prima o poi sarebbe diventata supernova. E così hanno affrettato le cose di qualche millennio, hanno mandato un catalizzatore, una bomba, un congegno che causasse al suo arrivo l’esplosione in supernova. — Presi fiato. — In realtà proprio per questo avete potuto vedere ancora lo scarico di fusione dell’astronave, anche se era quasi giunta a Betelgeuse. Non ha mai girato per frenare, perché non intendeva rallentare. Invece si è lanciata dritto nel cuore della stella, causando l’esplosione in supernova.