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— Ancora? — dissi. — Trasmettiamo ancora per radio, dopo tutto questo tempo? — Era magnifico: significava che…

Hollus rimase in silenzio per qualche istante, forse sorpresa che non capissi. — Non so — disse poi. — La Terra è a 429 anni luce da noi; la luce che ci giunge adesso mostra come era il tuo sistema solare al tempo della nostra partenza.

Annuii tristemente. Certo. Sentii il cuore battere forte e la vista mi si confuse maggiormente. All’inizio pensai che qualcosa nella rianimazione fosse andato storto, ma non si trattava di quello.

Ero scosso; non avevo pensato a come mi sarei sentito.

Ero ancora vivo.

Socchiusi gli occhi e fissai il piccolo disco giallo, poi abbassai lo sguardo sulla fede d’oro. Sì, ero ancora vivo. La mia amata Susan però non c’era più. Di sicuro.

Mi domandai che vita aveva avuto, dopo la mia partenza. Mi augurai che fosse stata felice.

E Ricky? Mio figlio, il mio fantastico figlio?

Be’, c’era quel medico che avevo sentito alla crv, quello che aveva detto che era già nato il primo essere umano che sarebbe vissuto per sempre. Forse Ricky era ancora vivo… e aveva 438 anni.

Le probabilità però erano scarse, pensai. Era molto più facile che Ricky fosse cresciuto per diventare l’uomo che era destinato a diventare, che avesse lavorato e amato e ora…

E ora non c’era più.

Mio figlio. Quasi certamente ero vissuto più di lui. Un padre in teoria non dovrebbe sopravvivere al figlio.

Sentii le lacrime agli occhi, lacrime che erano congelate nemmeno un’ora fa, lacrime che in assenza di gravità formavano una sorta di pozza vicino ai condotti lacrimali. Le asciugai.

Hollus conosceva il significato delle lacrime per gli uomini, ma non mi domandò perché piangessi. Anche i suoi figli, Pealdon e Kassold, erano di sicuro ormai morti. Rimase pazientemente librata accanto a me.

Mi domandai se Ricky avesse lasciato figli e nipoti e pronipoti; mi sconvolgeva pensare che ormai potevo avere facilmente una quindicina di generazioni di discendenti. Forse il nome Jericho circolava ancora…

E mi domandai se il Royal Ontario Museum esisteva ancora, se avevano riaperto il planetario o se in realtà il volo spaziale a buon mercato per tutti aveva infine, giustamente, reso ridondante quella istituzione.

Mi domandai se esisteva ancora il Canada, quel grande paese che tanto amavo.

Più di tutto, ovviamente, mi domandai se la razza umana esisteva ancora, se l’Uomo aveva scansato il veleno in fondo all’equazione di Drake, se aveva evitato di farsi saltare in aria da solo. Quando ero partito, avevamo armi nucleari da più di cinquant’anni; chissà se in un periodo otto volte superiore avevamo resistito alla tentazione di usarle.

O forse…

Era la scelta dei nativi di Epsilon Indi. E di quelli di Tau Ceti. E di Mu Cassiopeae A. E di Età Cassiopeae A. E anche di Sigma Draconis.

Perfino degli amorali esseri di Groombridge 1618, gli arroganti bastardi che avevano fatto saltare Betelgeuse.

Tutti quanti, se avevo ragione, erano trascesi in un regno delle macchine, in un mondo virtuale, in un paradiso generato da computer.

E a quest’ora, con altri quattro secoli di progressi tecnologici, senza dubbio l’Homo sapiens era in grado di fare la stessa cosa.

Forse l’Uomo l’aveva fatta. Forse l’aveva fatta.

Guardai Hollus, librata a mezz’aria: la reale Hollus, non il suo simulacro. La mia amica, in carne e ossa.

Forse l’Uomo aveva perfino preso l’imbeccata dai nativi di Mu Cassiopeae A, aveva fatto esplodere la Luna, aveva dato alla Terra anelli che rivaleggiavano con quelli di Saturno; certo, la nostra luna è relativamente più piccola di quella di Mu Cassiopeae e perciò contribuisce meno al sommovimento del nostro mantello terrestre. Eppure… forse adesso c’era un segnale d’avvertimento in qualche parte geologicamente stabile della Terra.

Ero andato di nuovo alla deriva, troppo lontano da una parete: avevo la tendenza a non badarci. Hollus manovrò in modo da venirmi vicino e prendermi per mano.

Mi augurai che l’Uomo non si fosse scaricato nei computer. Mi augurai che la razza fosse, be’, ancora umana… ancora calda e biologica e reale.

Non avevo modo di saperlo con certezza.

E l’entità era ancora lì ad aspettarci, dopo più di quattro secoli?

Sì.

Oh, forse non era rimasta sempre lì; forse aveva davvero calcolato quando saremmo giunti e si era allontanata a prendersi cura di altre cose nel frattempo. Mentre la Merelcas attraversava i 429 anni luce a velocità solo di un pelo inferiore a quella della luce stessa, il panorama era virato nell’ultravioletto, risultando quindi invisibile. Per gran parte di quel tempo l’entità poteva benissimo essere andata altrove.

E naturalmente forse non era davvero Dio, forse era solo una forma di vita estremamente progredita, una rappresentante di una razza antica, ma del tutto naturale. O forse era davvero una macchina, un massiccio sciame di entità frutto della nanotecnologia; non c’era motivo per cui una tecnologia progredita non potesse sembrare materia organica.

Ma dove si traccia la linea? Qualcosa… qualcuno… aveva deciso i parametri fondamentali per questo universo.

Qualcuno era intervenuto su almeno tre pianeti in un periodo di 375 milioni di anni, un tempo due milioni di volte più lungo del paio di secoli che le razze intelligenti parevano sopravvivere in forma corporea.

E ora qualcuno aveva salvato la Terra e Delta Pavonis II e Beta Hydri III dall’esplosione di una supergigante, assorbendo in un giro di istanti più energia di quella emessa da tutte le altre stelle della galassia, senza rimanerne distrutto.

Come si definisce Dio? Deve essere onnisciente? Onnipotente? Come dicono i Wreed, queste sono mere astrazioni, forse irraggiungibili. Deve essere definito, Dio, in un modo che lo ponga al di sopra della sfera della scienza?

Avevo sempre creduto che non ci fosse niente, al di là della sfera della scienza.

E ci credo ancora.

Dove si traccia la linea?

Proprio qui. Per me, la risposta era proprio qui.

Come si definisce Dio?

Così. Un Dio che potevo capire, almeno potenzialmente, era molto più interessante e importante di uno che sfidasse la comprensione.

Mi librai davanti a uno degli schermi a parete, con Hollus alla mia sinistra, altri sei Forhilnor accanto a lei, una fila di Wreed alla mia destra, E guardammo lui, l’entità. Risultò vasto circa 1,5 miliardi di chilometri… grosso modo il diametro dell’orbita di Giove. E di un nero così intenso che perfino il bagliore dello scarico di fusione della Merelcas, rimasto puntato da quella parte per due secoli di frenata, non vi si era riflesso.

L’entità continuò a eclissare Betelgeuse, o quel che ne restava, finché non fummo molto vicino. Allora rotolò via, movendo i sei arti come raggi di una ruota, lasciando scorgere l’ampia nebulosa che si era formata dietro di esso e al cui centro c’era la piccola pulsar, il cadavere di Betelgeuse.

Ma quella fu la sua unica reazione alla nostra presenza, almeno per quel che potevo dire. Rimpiansi di nuovo che non ci fossero veri oblò: forse, se ci avesse visto agitare il braccio, avrebbe risposto allo stesso modo, movendo in un arco lento e maestoso uno dei suoi enormi pseudopodi neri come ossidiana.

Roba da diventare pazzi: ero lì, a distanza di sputo da quello che poteva anche essere Dio, e lui pareva così indifferente nei miei riguardi come, be’, come quando dei tumori avevano cominciato a formarsi nei miei polmoni. Già una volta avevo tentato di parlare a Dio e non avevo ricevuto risposta, ma ora, maledizione, almeno la cortesia, se non altro, imponeva una risposta: avevamo fatto il viaggio più lungo che mai avessero fatto gli uomini o i Forhilnor o i Wreed.