Era impossibile, confondere quella sagoma tozza e irsuta: che lì, in quel momento, ci fosse un cavallo quasi identico, era una coincidenza troppo grande. All’improvviso fu così contenta di non avere trascurato l’ultima fune, che fu scossa da tremiti. Oltre a uno dei tre ragazzi, nell’accampamento c’era anche Egwene. E se nella fuga due dei loro cavalli portavano carico doppio, alcuni Figli li avrebbero raggiunti, anche se i cavalli di questi ultimi si disperdevano. E qualcuno di loro — Lan, Moiraine, lei, i ragazzi — sarebbe morto. Ne era sicura, come se ascoltasse il vento. E questo pensiero le conficcò nelle viscere una spina di paura, paura del motivo all’origine di tanta sicurezza. Questa volta non c’entravano previsioni del tempo, raccolti, malattie. Perché Moiraine le aveva rivelato che anche lei poteva usare il Potere? Non poteva lasciarla in pace?
Stranamente, la paura calmò il tremito. Con mani ferme come se macinasse erbe a casa sua, Nynaeve recise l’ultima fune. Mise nel fodero il pugnale e slegò la cavezza di Bela. La giumenta si svegliò di soprassalto e agitò la testa, ma Nynaeve le accarezzò il muso e le mormorò piano per tranquillizzarla. Bela sbuffò e parve contenta.
Altri cavalli, lungo quella fune, erano svegli e la guardavano. Ricordando Mandarb, Nynaeve mosse con esitazione la mano verso il cavallo più vicino, ma l’animale non s’insospettì, anzi pareva volere anche lui la sua parte di carezze. Nynaeve afferrò la cavezza di Bela e si avvolse al polso quella dell’altro, sempre tenendo d’occhio il campo. Le tende distavano solo trenta passi e si scorgevano uomini in movimento. Se avessero notato un’agitazione fra i cavalli e fossero venuti a controllare...
Nynaeve si augurò che Moiraine non aspettasse di vederla tornare, che si sbrigasse a mettere in atto la diversione.
All’improvviso, il fulmine squarciò la notte e per un istante cancellò il buio. Il tuono colpì le orecchie di Nynaeve, con tanta forza da farle cedere le ginocchia, mentre una saetta frastagliata colpiva il terreno proprio alle spalle dei cavalli e faceva schizzare terriccio e pietre come una fontana. Il rombo del terreno spaccato gareggiò con quello del tuono. I cavalli, pazzi di terrore, nitrirono e s’impennarono. Le funi si spezzarono come cordicelle. Un altro fulmine saettò contro il terreno, prima ancora che il primo fosse svanito.
Nynaeve era troppo impegnata per esultare. Al primo schianto, Bela scattò da una parte, mentre l’altro cavallo s’impennò nella direzione opposta. Con una cavezza per mano, Nynaeve pensò che le avrebbero slogato le spalle. Per un momento rimase sospesa fra i due cavalli, sollevata da terra, mentre il suo grido veniva soffocato dal fulmine successivo. E i fulmini continuarono a cadere, con un rombo continuo. I due cavalli, trattenuti, arretrarono, lasciandola cadere. Nynaeve avrebbe voluto rannicchiarsi per terra e massaggiarsi le spalle doloranti, ma non aveva tempo. Bela e l’altro cavallo la scossero qua e là, con occhi che roteavano fino a mostrare solo il bianco, minacciando di gettarla lunga e distesa e di calpestarla. In qualche modo Nynaeve riuscì a sollevare le braccia, si afferrò alla criniera di Bela e si tirò in groppa alla giumenta. L’altra cavezza, sempre legata al polso, le si conficcò nelle carni.
Nynaeve spalancò la bocca, quando una sagoma lunga e grigia la oltrepassò, ringhiando, senza badare né a lei né ai suoi due cavalli, ma facendo scattare le mascelle contro gli altri che ora correvano in tutte le direzioni, pazzi di terrore. Una seconda sagoma seguì da presso la prima. Nynaeve avrebbe voluto urlare di nuovo, ma non trovò la voce. “Lupi!" pensò. “La Luce ci salvi! Cosa combina, Moiraine?"
Non fu necessario dare di tallone a Bela. La giumenta si lanciò al galoppo e l’altro cavallo fu felice di seguirla. Da qualsiasi parte, purché corressero, purché sfuggissero al fuoco che cadeva dal cielo e uccideva la notte.
38
Salvataggio
Perrin, con i polsi legati dietro la schiena, continuò a cambiare posizione per evitare i sassi, ma alla fine si rassegnò e cercò goffamente di coprirsi col mantello. La notte era fredda e il contatto col terreno pareva prosciugarlo di tutto il calore, come era accaduto ogni notte, da quando i Manti Bianchi li avevano catturati. Per loro, i prigionieri non avevano bisogno di coperte né di riparo, soprattutto se erano pericolosi Amici delle Tenebre.
Egwene gli si era rannicchiata contro la schiena per cercare calore e dormiva il sonno profondo dello sfinimento. Non borbottò nemmeno, quando Perrin cambiò posizione. Il sole era calato da un pezzo e Perrin era dolorante dalla testa ai piedi, dopo una giornata a correre dietro a un cavallo, col guinzaglio al collo; ma non riusciva a prendere sonno.
La colonna non procedeva con grande rapidità. A causa dell’assalto dei lupi nello stedding, i Manti Bianchi avevano perduto la maggior parte dei cavalli di ricambio e non potevano procedere in fretta come avrebbero voluto. Il ritardo era un altro motivo di risentimento nei confronti dei due prigionieri. Però la fila si muoveva ad andatura costante — Lord Bornhald intendeva arrivare a Caemlyn in tempo per chissà cosa — e in fondo alla mente Perrin aveva il timore che, se fosse caduto, il Manto Bianco che reggeva il guinzaglio non si sarebbe fermato, anche se il Lord Capitano Bornhald aveva ordinato di tenerli in vita per farli interrogare dagli Inquisitori a Amador. Se fosse caduto, Perrin lo sapeva, non si sarebbe salvato: gli liberavano le mani solo per i pasti e per andare alla latrina. Il guinzaglio rendeva arduo ogni passo e potenzialmente fatale ogni pietra. Perrin procedeva con i muscoli tesi, guardando dove metteva i piedi. Egwene lo imitava, tesa e spaventata. Ma nessuno dei due osava staccare lo sguardo dal terreno, se non per un rapido scambio d’occhiate.
Di solito, appena i Manti Bianchi si fermavano, Perrin crollava come uno straccio strizzato; ma quella notte i suoi pensieri correvano all’impazzata. La pelle gli formicolava per una paura cresciuta col passare dei giorni. Se chiudeva gli occhi, vedeva solo le torture promesse da Byar, una volta giunti a Amador.
Era sicuro che Egwene ancora non ci credeva; altrimenti, per quanto sfinita, non sarebbe riuscita a chiudere occhio. All’inizio nemmeno lui ci aveva creduto: la gente non faceva agli altri certe cose, ecco! Ma Byar non voleva spaventarli: parlava di ferri roventi e di pinze, di coltelli per scorticare e di aghi, come se parlasse di un bicchiere d’acqua. Né c’era traccia di piacere maligno, nei suoi occhi. Non gli interessava se loro due erano spaventati o no, se erano vivi o no. Proprio per questo, quando se ne rese conto, Perrin sudò freddo e si convinse infine che Byar diceva semplicemente la verità.
Il mantello delle due sentinelle mandava riflessi grigi al chiaro di luna. Perrin non distingueva il loro viso, ma era sicuro che i due li tenevano d’occhio. Come se potessero scappare, legati mani e piedi. Ricordava il disgusto nei loro occhi e l’aspetto tirato del loro viso, come se montassero la guardia a due mostri sudici, puzzolenti e schifosi. Tutti i Manti Bianchi li guardavano a quel modo, sempre. Come poteva convincerli che non erano Amici delle Tenebre, dal momento che ne erano già convinti? Sentì che lo stomaco gli si torceva in un conato di vomito. Alla fine, probabilmente, avrebbe confessato tutto quel che volevano, solo per far smettere gli Inquisitori.
Vide arrivare un Manto Bianco che reggeva una lanterna. L’uomo si fermò a parlare alle guardie, che risposero in tono di rispetto. Perrin non udì le parole, ma riconobbe la figura alta e magra.
Strinse gli occhi, quando Byar gli accostò al viso la lanterna. Nell’altra mano l’uomo reggeva l’ascia di Perrin: ormai se n’era appropriato.
«Sveglia» disse, in tono inespressivo, quasi pensasse che Perrin dormiva con la testa sollevata. Accompagnò l’ordine con un calcione nelle costole.