Agelmar smise di cercare la spada, ma continuò a guardare Rand e gli altri due, con aria dubbiosa. «Moiraine Sedai, se lo dici tu, ti credo, ma non capisco. Ragazzi di campagna. Sei sicura, Aes Sedai?»
«Il sangue antico» disse Moiraine «si separò, come un fiume, in mille volte mille rivoli; ma a volte i rivoli si riuniscono per formare di nuovo un fiume. L’antico sangue di Manetheren è forte e puro in quasi tutti questi giovanotti. Puoi dubitare del sangue di Manetheren, lord Agelmar?»
Rand guardò di scancio l’Aes Sedai. Quasi tutti. Rischiò un’occhiata a Nynaeve, che si era girata per guardare oltre che ascoltare. La Sapiente scosse la testa: non aveva rivelato all’Aes Sedai che Rand non era originario dei Fiumi Gemelli. Che cosa sapeva, Moiraine?
«Manetheren» disse Agelmar, annuendo. «Non ho dubbi, su quel sangue.» Poi, più vivacemente: «La Ruota porta tempi bizzarri. Ragazzi di campagna portano nella Macchia l’onore di Manetheren; eppure, se un sangue può vibrare al Tenebroso un colpo mortale, questo è proprio il sangue di Manetheren. Sarà fatto come vuoi, Aes Sedai.»
«Allora permettici di ritirarci nelle nostre stanze» disse Moiraine. «Dobbiamo alzarci col sole, perché il tempo vola. I tre ragazzi devono dormire accanto a me. Manca troppo poco alla battaglia, per consentire al Tenebroso di vibrare un altro colpo. Troppo poco.»
Rand sentì su di sé lo sguardo dell’Aes Sedai, che esaminava lui e gli altri due, soppesandone la forza. Rabbrividì. Troppo poco.
48
La Macchia
Il vento agitava il mantello di Lan, rendendo a volte difficile scorgere il Custode anche in pieno sole, ma Ingtar e i cento soldati, mandati da lord Agelmar a scortare al Confine lui e i suoi compagni, nel caso s’imbattessero nei Trolloc, erano un vero spettacolo, in doppia fila dietro il vessillo con il Gufo Grigio, con armature e bandiere rosse e cavalli con protezioni d’acciaio. Erano sfarzosi come cento Guardie della Regina, ma Rand aveva avuto tutta la mattina per ammirare i soldati dello Shienar e in quel momento osservava le torri appena visibili più avanti.
Ogni torre sorgeva in cima a un colle, a mezzo miglio dalla più vicina. A ponente e a levante ne sorgevano altre, e altre ancora più lontano. Intorno a ogni torre correva a spirale una larga rampa munita di muretto di protezione, che dopo un giro completo arrivava alla massiccia porta a metà altezza dalla cima merlata. Il muretto proteggeva un’eventuale sortita della guarnigione; ma i nemici, per raggiungere la porta, dovevano salire sotto una grandinata di frecce e di pietre e d’olio bollente contenuto in calderoni disposti lungo i bastioni sporgenti. Un grande specchio metallico, ora abbassato, scintillava in cima a ogni torre, sotto la grande coppa di ferro dove, in mancanza del sole, si accendevano fuochi di segnalazione. I segnali erano trasmessi ad altre torri più distanti dal Confine, e poi ad altre, fino alle fortezze dell’interno, che avrebbero mandato soldati a respingere l’incursione. Questo, in tempi normali.
Dalla sommità delle due torri più vicine alcuni uomini osservavano l’arrivo del gruppo. Erano pochi uomini per torre e scrutavano, incuriositi, dalle saettiere. In tempi migliori degli attuali, le torri avevano solo il personale necessario alla propria difesa e per sopravvivere contavano più sulla solidità delle mura che sulla robustezza delle braccia; ma ora ogni uomo non indispensabile, e anche qualcuno di più, cavalcava verso il passo di Tarwin. Se i soldati non fossero riusciti a bloccarlo, la caduta delle torri non avrebbe avuto importanza.
Rand provò un brivido, mentre passavano fra le due torri. Gli parve quasi di attraversare una parete d’aria più fredda. Questo era il Confine. Al di là, il terreno non pareva diverso da quello dello Shienar; ma laggiù, da qualche parte al di là degli alberi spogli, c’era la Macchia.
Ingtar alzò il pugno per fermare i soldati a breve distanza da una semplice colonnina in vista delle torri, una pietra che segnava il confine tra lo Shienar e quello che un tempo era stato il Malkier, e disse a malincuore: «Vi chiedo scusa, Moiraine Sedai, Dai Shan, Costruttore. Lord Agelmar mi ha ordinato di non procedere oltre.» Pareva irritato col mondo intero.
«Abbiamo convenuto così, lord Agelmar e io» rispose Moiraine.
Ingtar brontolò acidamente. «Chiedo scusa, Aes Sedai» disse, in tono che non pareva affatto di scusa. «Scortarvi qui significa che forse non giungeremo in tempo per la battaglia al passo di Tarwin. Mi si toglie l’occasione di stare con gli altri, però mi si ordina di non superare d’una spanna il paletto del confine, come se non fossi mai stato nella Macchia. E milord Agelmar non ha voluto spiegarmi il motivo.» Con lo sguardo mutò le ultime parole in una domanda rivolta all’Aes Sedai. Non se la sentiva di guardare Rand e gli altri: aveva saputo che avrebbero accompagnato Lan nella Macchia.
«Se vuole, si prenda pure il mio posto» mormorò Mat a Rand. Lan rivolse a entrambi un’occhiata penetrante. Mat abbassò lo sguardo e arrossì.
«Ciascuno di noi, Ingtar, ha il suo posto nel Disegno» disse Moiraine, decisa. «Da qui in poi dobbiamo percorrere da soli la nostra strada.»
Ingtar le rivolse un inchino, più rigido di quanto l’armatura giustificasse. «Come vuoi, Aes Sedai» disse. «Ora vi lascio. Devo cavalcare a spron battuto per arrivare al passo di Tarwin. Almeno, lì mi sarà... permesso... di affrontare i Trolloc.»
«Sei davvero tanto ansioso?» domandò Nynaeve. «Di combattere i Trolloc?»
Ingtar le rivolse un’occhiata di perplessità, poi guardò Lan, come se il Custode potesse spiegare tutto. «È il mio dovere, lady» disse lentamente. «La ragione della mia esistenza.» Alzò la mano verso Lan, palmo in fuori. «Suravye ninto manshima taishite, Dai Shan. La Pace favorisca la tua spada.» Girò il cavallo e si diresse a levante, con il suo portabandiera e i suoi cento soldati. Procedettero al passo, ma ad andatura costante, la massima che i cavalli in armatura potessero mantenere per coprire una distanza ancora grande.
«Che frase insolita» disse Egwene. «Perché si appellano sempre alla Pace?»
«Quando non hai mai conosciuto una cosa, se non in sogno» rispose Lan, spingendo avanti il morello «essa diviene più d’un talismano.»
Mentre oltrepassava la pietra confinaria, seguendo il Custode, Rand si girò a guardare Ingtar e i suoi soldati scomparire dietro un folto d’alberi spogli; poi sparì la colonnina e, per ultime, le torri. Ben presto furono soli; cavalcarono a settentrione, sotto il baldacchino privo di foglie della foresta. Rand sprofondò in un silenzio guardingo e una volta tanto anche Mat non trovò niente da dire.
Quel mattino, le porte di Fal Dara si erano aperte all’alba. Lord Agelmar, ora in armatura ed elmo come i suoi soldati, era uscito a cavallo dalla porta di levante, con lo scudo con le Tre Volpi e con il vessillo del Falco Nero, e si era diretto verso il sole, in quel momento appena al di sopra degli alberi. Come un serpente d’acciaio che si muovesse sinuosamente al ritmo dei tamburi, la colonna di soldati in fila per quattro, con Agelmar in testa, si era allontanata dalla città ed era stata nascosta dagli alberi, prima che la coda avesse lasciato la fortezza di Fal Dara. Non c’erano state, nelle vie, ovazioni ad accelerare la marcia, solo il rumore dei tamburi e lo schiocco delle bandiere, ma gli occhi dei soldati erano fissi a oriente, dove la colonna si sarebbe unita ad altri serpenti d’acciaio, provenienti da Fal Moran alla guida dello stesso re Easar e dei suoi figli, e da Ankor Dail, che governava le Marche Orientali e sorvegliava la Dorsale del Mondo; da Mos Shirare e da Fal Sion e da Camron Caan, e dalle altre fortezze dello Shienar, grandi e piccole. Riuniti in un serpente più grande, avrebbero puntato a settentrione, verso il passo di Tarwin.
Nello stesso momento era iniziato un altro esodo, attraverso la Porta Reale, che dava sulla strada per Fal Moran: carri coperti e scoperti, gente a cavallo e a piedi, che spingeva davanti a sé il bestiame, che portava sulla schiena i propri figli, gente con la faccia lunga come le ombre del mattino. La riluttanza a lasciare forse per sempre la propria casa rallentava l’andatura, tuttavia la paura di quel che s’appressava li spronava, perciò i profughi procedevano a scatti, trascinando i piedi, eppure mettendosi a correre per una decina di passi e tornando a strascicare i piedi nella polvere. Alcuni si erano fermati all’esterno della città a guardare la fila di soldati in armatura serpeggiare nei boschi. Nello sguardo di alcuni era fiorita la speranza; e i profughi avevano mormorato preghiere, per i soldati e per se stessi, prima di riprendere il cammino verso meridione.