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La casa, la stalla e il recinto di pietra per le pecore formavano le punte di un triangolo intorno al cortile, dove alcune galline raspavano il terreno gelato. La tettoia per la tosatura e il trogolo di pietra erano posti vicino al recinto. Al limitare dei campi tra il cortile e gli alberi si alzava il cono del capanno per la concia. Pochi contadini dei Fiumi Gemelli riuscivano a tirare avanti, se non avevano da vendere lana e tabacco.

Quando Rand diede un’occhiata al recinto di pietra, il capo del gregge, un ariete dalle grosse corna, gli restituì lo sguardo, ma gran parte delle pecore dal muso nero rimase placidamente distesa o in piedi con la testa nella greppia. Le pecore avevano il pelo folto e riccio, ma faceva ancora troppo freddo per iniziare la tosatura.

«Non credo che quell’uomo sia venuto qui» gridò Rand a suo padre, che lancia in pugno, faceva il giro della fattoria ed esaminava attentamente il terreno. «Le pecore non sarebbero così tranquille.»

Tam annuì, ma continuò l’ispezione. Completò il giro della casa e passò alla stalla e al recinto delle pecore, esaminando sempre il terreno. Controllò perfino la camera di fumigazione e la tettoia della conceria. Tirò su dal pozzo un secchio pieno, prese nel cavo della mano un poco d’acqua, l’annusò e l’assaggiò con la punta della lingua. Si mise a ridere e bevve rapidamente.

«No, non è venuto» disse a Rand, asciugandosi la mano sulla giubba. «Tutte queste storie di uomini e di cavalli che non posso vedere mi fanno guardare con sospetto ogni cosa.» Riempì d’acqua un altro secchio e si diresse alla casa. «Metto sul fuoco la minestra per la cena. Abbiamo il tempo per qualche lavoretto.»

Rand fece una smorfia, rimpiangendo la Notte d’Inverno a Emond’s Field. Ma Tam aveva ragione. In una fattoria, non si finisce mai di lavorare: terminata una cosa, ce ne sono subito altre due. Rand esitò, poi decise di tenere a portata di mano arco e frecce. Se il cavaliere nero fosse comparso, non voleva affrontarlo con solo una zappa.

Come prima cosa mise Bela nella stalla. Le tolse i finimenti e la sistemò accanto alla mucca; poi, messo da parte il mantello, la strofinò con manciate di paglia secca e la strigliò con un paio di brusche. Salì nel fienile e col forcone tirò giù il fieno da darle da mangiare. Le portò pure una misura d’avena, anche se ne rimaneva poca e forse non ce ne sarebbe stata per un pezzo, a meno che il tempo non migliorasse. La mucca, munta quella mattina alle prime luci, aveva dato solo un quarto del latte che produceva di solito: pareva prosciugarsi, col perdurare dell’inverno.

Per le pecore era rimasto foraggio per due giorni: ormai avrebbero dovuto essere nei pascoli, ma l’erba non spuntava ancora. Rand rinnovò la provvista d’acqua e passò a raccogliere le uova. Ne trovò solo tre. Sembrava che le galline diventassero più furbe, nel nasconderle.

Si apprestava a zappare l’orto dietro la casa, quando Tam uscì e si sedette sulla panca di fronte alla stalla a riparare dei finimenti; tenne accanto a sé la lancia. Rand si tranquillizzò, perché aveva lasciato l’arco sopra il mantello, a qualche passo di distanza.

Nell’orto c’erano poche erbacce, ma i cavoli erano rachitici e si vedeva solo qualche germoglio di fagioli e piselli e nessun segno delle bietole. Non avevano piantato tutto, certo, nella speranza che il freddo finisse e permettesse di fare un po’ di raccolto, prima che non ci fosse più niente in cantina. Sarchiato l’orto, c’era la legna da spaccare.

A Rand pareva che fossero passati anni, da quando non c’era legna da spaccare. Ma lamentarsi non avrebbe riscaldato la casa; perciò prese la scure, appoggiò al ceppo arco e faretra e si mise al lavoro. Pino, per fiamme rapide e calde; quercia, per fuoco più lento. Ben presto era tanto accaldato da togliersi la giubba. Quando il mucchio di legna fu abbastanza grosso, formò una catasta contro la parete della casa, accanto alle altre; alcune erano alte fino alla gronda, mentre di solito, in quel periodo dell’anno, erano quasi consumate. A furia di spaccare e di accatastare, si lasciò prendere dal ritmo dei colpi di scure; fu riportato al presente, con un sobbalzo di sorpresa, dalla mano di Tam sulla spalla.

Il crepuscolo era sceso e già svaniva rapidamente nella notte. La luna piena, alta sopra gli alberi, brillava, livida e gonfia, come se fosse pronta a cadere. Anche il vento era diventato più freddo e nuvole sbrindellate correvano nel cielo sempre più buio.

«Andiamo a lavarci, figliolo, e mangiamo un po’ di minestra. Ho già portato l’acqua per un bagno caldo prima d’andare a letto.»

«Purché sia calda, mi va bene qualsiasi cosa» disse Rand, gettandosi sulle spalle il mantello. Il sudore gli inzuppava la camicia; il vento, di cui non si era accorto manovrando l’ascia, ora sembrava volerlo gelare. Rand soffocò uno sbadiglio e rabbrividì. «E anche una bella dormita. Mi sento di dormire per tutta la Festa.»

«Vuoi fare una scommessa?» sorrise Tam. E Rand si ritrovò a sogghignare: non si sarebbe perso Bel Tine nemmeno con una settimana di sonno arretrato.

Tam aveva abbondato con le candele e nell’ampio camino scoppiettava un bel fuoco, per cui la stanza principale dava una sensazione di tepore e d’allegria. Oltre al camino, la stanza conteneva un largo tavolo di quercia, sufficiente per dieci e più persone, anche se di rado c’erano stati tanti commensali, dopo la morte della madre di Rand. Lungo le pareti c’erano armadietti e cassapanche, quasi tutti opera di Tam stesso, e intorno al tavolo alcune sedie dall’alta spalliera. Quella, imbottita, che Tam chiamava la sua poltrona di lettura, era sistemata sul tappeto davanti al camino. Lo scaffale di libri, accanto alla porta, era meno ricco di quello della locanda, ma non era facile procurarsi libri. Pochi ambulanti ne portavano più d’una manciata e bisognava accontentare tutte le richieste.

La stanza non sembrava linda e lustra come la maggior parte delle case del villaggio — il portapipe di Tam e I viaggi di Jain Farstrider erano sulla tavola, mentre un altro libro rilegato in legno era rimasto sul cuscino della poltrona; sulla panca vicino al camino c’era un finimento da riparare e alcune camicie da rammendare facevano mucchio sopra una sedia — ma era comunque pulita, calda e confortevole. Lì era possibile dimenticare il gelo dell’esterno. Lì non c’era alcun falso Drago, né guerre, né Aes Sedai. E neppure uomini dal mantello nero. Il profumo della pentola col minestrone, appesa sopra il fuoco, riempiva l’ambiente e stuzzicava l’appetito.

Con un lungo mestolo di legno Tam rimestò il minestrone e fece l’assaggio. «Ci vuole ancora un momento» disse.

Rand si lavò in fretta viso e mani, servendosi della brocca e della bacinella poste nel portacatino sistemato accanto alla porta. Avrebbe preferito un bagno caldo, per togliersi di dosso il sudore e il freddo, ma l’avrebbe fatto quando ci fosse stato il tempo di riscaldare la grossa caldaia nella stanza posteriore.

Tam frugò nell’armadietto e prese una chiave lunga una spanna. La girò nella grossa serratura della porta. All’occhiata stupita di Rand, spiegò: «Meglio stare al sicuro. Forse è un capriccio, o forse il tempo mi mette di malumore, ma...» Sospirò e fece saltellare sul palmo la chiave. «Vado a chiudere la porta posteriore» disse; e scomparve nel retro della casa.

Rand non l’aveva mai visto chiudere a chiave le porte. Nessuno, nei Fiumi Gemelli, le chiudeva: non ce n’era bisogno. Finora, almeno.

Dalla stanza da letto di Tam, situata in soffitta, provenne un rumore, come d’un oggetto trascinato sul pavimento. Rand corrugò la fronte. A meno che Tam non avesse deciso a un tratto di spostare i mobili, di sicuro aveva tirato da sotto il letto il vecchio baule. Un’altra cosa mai fatta, a memoria di Rand.