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Sobbalzò al verso stridulo d’un caprimulgo e si lasciò andare contro un albero, tremando. A quel modo non risolveva niente. Si mise carponi e prese a strisciare reggendo goffamente davanti a sé la spada. Tenne il mento contro il terreno, finché non raggiunse la parte posteriore del recinto delle pecore.

Acquattato contro il muretto di pietra, tese l’orecchio: non un rumore disturbava la notte. Con prudenza si alzò quanto bastava a guardare da sopra: nell’aia non c’era movimento, nessun’ombra si stagliava contro le finestre illuminate o nel vano della porta. “Prima Bela e il carretto, oppure le coperte e le altre cose?" Fu la luce a farlo decidere: la stalla era buia, dentro poteva esserci qualsiasi cosa in agguato e se ne sarebbe accorto troppo tardi. Invece, se nella casa c’era qualcuno, l’avrebbe visto subito.

All’improvviso si bloccò. Non c’era nessun rumore. Certo la maggior parte delle pecore si era calmata ed era tornata a dormire, per quanto fosse poco probabile, ma qualcuna era sempre sveglia anche nel cuor della notte, si muoveva e belava di tanto in tanto. Distingueva a malapena i monticelli scuri delle pecore distese per terra. Uno era quasi sotto di lui.

Cercando di evitare rumori, si sollevò sopra il muretto e allungò la mano verso la sagoma confusa. Toccò lana crespa, una macchia umida. La pecora non si mosse. Rand si lasciò sfuggire il fiato e si ritrasse di scatto; quasi perdette la spada, mentre ricadeva a terra. Uccidono per divertimento, ricordò. Sfregò la mano nel terriccio per ripulirla.

Si disse ferocemente che nulla era cambiato. I Trolloc avevano fatto la loro carneficina e se n’erano andati. Continuò a ripeterlo, mentre attraversava l’aia, tenendosi più basso possibile, ma cercando anche di guardare in ogni direzione. Non aveva mai pensato che un giorno avrebbe invidiato i lombrichi.

Raggiunta la facciata della casa, si tenne contro il muro, sotto la finestra distrutta, e tese l’orecchio. Lentamente si alzò e scrutò dentro la casa.

La pentola del minestrone, capovolta, giaceva nella cenere del focolare. Pezzi di legno erano sparpagliati su tutto il pavimento; non un mobile era rimasto intatto. Anche la tavola era rovesciata e di due gambe restava solo il mozzicone. I cassetti erano stati fracassati, credenze e armadietti erano aperti, quasi tutti gli sportelli pendevano da un solo cardine. Il contenuto era disseminato sopra i rottami e su ogni cosa c’era un velo di polvere bianca. Farina e sale, a giudicare dai sacchi squarciati, gettati accanto al camino. Quattro cadaveri deformi facevano mucchio sui resti del mobilio. Trolloc.

Rand riconobbe quello con corna d’ariete. Gli altri erano più o meno simili: un repellente miscuglio di facce umane deformate da corna, piume pelo. Le mani, quasi umane, peggioravano solo lo spettacolo. Due portavano stivali; gli altri avevano piedi caprini. Rand li osservò, senza battere le palpebre, finché gli occhi non gli bruciarono. Nessun Trolloc si mosse. Erano certamente morti. E Tam aspettava.

Varcò di scatto la porta e si bloccò, soffocato dal fetore, paragonabile solo al lezzo di una stalla non governata da mesi. Macchie disgustose lordavano le pareti. Rand cercò di respirare dalla bocca e frugò tra i rottami. In una credenza una volta c’era un otre.

Udì alle spalle un raspio che gli gelò le ossa fino al midollo. Si girò di scatto, quasi inciampando nei resti della tavola. Riprese subito l’equilibrio e mandò un gemito, stringendo forte i denti per non batterli dalla paura.

Un Trolloc si tirò in piedi. Un muso da lupo sporgeva fra gli occhi incavati. Occhi piatti, inespressivi e fin troppo umani. Le orecchie, appuntite e irsute, si muovevano in continuazione. Il Trolloc pestò i compagni morti, con grandi zoccoli fessi. La cotta di maglia nera gli grattava contro brache di cuoio; dalla cintura gli pendeva una grande spada ricurva come falce.

Il Trolloc borbottò qualche parola, con voce gutturale e stridula, poi disse: «Altri vanno via. Narg resta. Narg furbo.» Le parole erano distorte e poco comprensibili, pronunciate da una bocca non intesa per il linguaggio umano. Il tono mirava a tranquillizzare, pensò Rand, ma non riuscì a distogliere lo sguardo dai denti giallastri, lunghi e aguzzi, che balenavano a ogni parola. «Narg sa che uno torna prima o poi. Narg aspetta. Spada non ti serve. Metti giù spada.»

Solo in quel momento Rand si rese conto d’impugnare a due mani, con presa malferma, la spada di Tam e di puntarla contro il Trolloc. La mostruosa creatura lo sovrastava di tutta la testa e le spalle; aveva torace e braccia tanto robusti da far sembrare rachitico mastro Luhhan.

«Narg non fa male.» Il Trolloc si avvicinò d’un passo. «Tu metti giù spada.» Sul dorso delle mani i peli neri erano folti come vello.

«Indietro» disse Rand, con voce non troppo ferma. «Perché avete distrutto ogni cosa? Perché?»

«Vlja daeg roghda!» Il ringhio si mutò subito in un sorriso tutto zanne. «Metti giù spada. Narg non fa male. Myrddraal vuole parlare a te.» Un lampo d’emozione gli attraversò il viso deforme: paura. «Altri tornano, tu parli a Myrddraal.» Mosse un altro passo e posò la mano sull’elsa. «Metti giù spada.»

Rand si umettò le labbra. Myrddraal! Un Fade, Colui che svanisce nelle ombre! I peggiori personaggi delle storie si aggiravano sulla terra, quella notte. A confronto del Fade, il Trolloc era una minaccia trascurabile. Rand doveva trovare il modo di andarsene. Ma se il Trolloc avesse sguainato quella massiccia spada, lui era finito. Si sforzò di sorridere. «D’accordo.» Serrò il pugno sull’elsa e abbassò le braccia lungo i fianchi. «Gli parlerò.»

Il sorriso lupesco si mutò in ringhio e il Trolloc si avventò. Rand non pensava che una creatura così massiccia si muovesse con tanta rapidità. Disperato, alzò la spada. Il mostro vi finì addosso e sbatté Rand contro la parete. Senza fiato, Rand lottò per respirare, mentre cadeva a terra, travolto dal Trolloc. Si dibatté per non farsi schiacciare, per evitare le fauci e le mani irsute che cercavano di afferrarlo.

A un tratto il Trolloc sussultò e rimase inerte. Pieno di lividi e di escoriazioni, mezzo soffocato dalla massa che lo schiacciava, per un attimo Rand non si mosse, incredulo. Ma si riprese in fretta, almeno quanto bastava a strisciare da sotto il corpo del Trolloc. La creatura era proprio morta: la punta insanguinata della spada gli sporgeva dalla schiena. Rand aveva le mani coperte di sangue e una macchia scura sul davanti della camicia. Si sentì rivoltare lo stomaco e deglutì con forza per resistere alla nausea. Tremava violentemente, non di terrore, ma di sollievo.

Altri tornano, aveva detto il Trolloc. Gli altri suoi simili sarebbero tornati alla casa. Con un Myrddraal, un Fade. Le storie dicevano che i Fade erano alti venti piedi, avevano occhi di fuoco e cavalcavano le ombre come se fossero cavalli. Quando un Fade si girava di lato, scompariva; e nessuna parete poteva fermarlo. Rand doveva sbrigarsi.

Con un grugnito per lo sforzo, sollevò il cadavere del Trolloc per ricuperare la spada... e quasi se la diede a gambe, quando gli occhi sbarrati lo fissarono. Gli occorse un minuto per capire che erano vitrei per la morte.

Si pulì le mani in uno straccio lacero — solo quel mattino era una camicia di Tam — e con uno strattone liberò la spada. Pulita la lama, gettò a terra lo straccio, con riluttanza, ma non era certo quello, il momento d’essere ordinato, si disse con una risata che riuscì a fermare solo serrando i denti. Non vedeva come avrebbero potuto ripulire la casa in modo che fosse di nuovo abitabile. A quest’ora il legno stesso aveva probabilmente assorbito l’orribile fetore. Ma non aveva tempo di pensare a queste cose: Tam lo aspettava e i Trolloc stavano tornando.

Prese tutto quello che gli venne in mente. Coperte e panni puliti per fasciare la ferita di Tam. Il mantello e la giubba, suoi e di Tam. Una ghirba che portava con sé quando andava a pascolare le pecore. Una camicia pulita. Alla prima occasione si sarebbe liberato di quella sporca di sangue. I sacchetti di pelle che contenevano corteccia di salice e altri medicamenti erano finiti in un mucchio scuro e fangoso. che non trovò la forza di toccare.