In giro non si vedevano corpi ma neanche persone vive e dalle capanne non usciva traccia di fumo. La torre campanaria appariva silenziosa e deserta e non c'erano impronte intorno ad essa.
— Vedo qualcosa — esclamò Colin, mentre erano a metà del pendio. Anche Dunworthy aveva visto… un tremolio di movimento che poteva essere anche un uccello o un ramo che si agitava.
— Laggiù — disse ancora Colin, indicando verso la seconda capanna.
Una mucca emerse fra le costruzioni, priva di cavezza e con le mammelle gonfie… e Dunworthy ebbe la certezza che i suoi timori erano stati fondati, e che la peste era arrivata anche lì.
— È una mucca — commentò Colin, in tono disgustato.
Al suono della sua voce l'animale sollevò la testa e cominciò a camminare verso di loro, muggendo.
— Dove sono tutti? — chiese Colin. — Qualcuno deve aver suonato la campana.
Sono tutti morti, pensò Dunworthy, guardando verso il cortile della chiesa, dove erano state scavate nuove tombe la cui copertura di terra non era ancora del tutto ammantata di neve. Speriamo che siano stati tutti sepolti nel cortile della chiesa, si augurò, e in quel momento vide il primo corpo. Era un ragazzo giovane, seduto con la schiena appoggiata a una lapide tombale, come se stesse riposando.
— Guardi, c'è qualcuno — esclamò Colin, assestando uno strattone alle redini e indicando il corpo. — Salve, laggiù — chiamò, poi si girò a guardare Dunworthy e aggiunse: — Pensa che riusciranno a capire quello che diciamo?
— Lui è… — Cominciò Dunworthy.
Il ragazzo si alzò in piedi a fatica, reggendosi con una mano alla lapide, e si guardò intorno come se stesse cercando un'arma.
— Non ti faremo del male — gridò Dunworthy, tentando di pensare a quali fossero i termini giusti in inglese medievale. Si lasciò quindi scivolare giù dalla groppa dello stallone e dovette aggrapparsi alla sella a causa di un improvviso attacco di vertigini. Raddrizzandosi protese la mano verso il ragazzo, con il palmo verso l'esterno.
Il volto del ragazzo era sporco, striato di sangue e di polvere, e il davanti della sua casacca e dei calzoni arrotolati era intriso di sangue secco e rigido. Reggendosi il fianco come se il movimento gli causasse dolore, il ragazzo si chinò e raccolse un bastone che giaceva al suolo coperto dalla neve, poi venne avanti in modo da sbarrargli il passo.
Kepe fron haire. Der fevreblau hast bifallen us.
— Kivrin — disse Dunworthy, avviandosi verso di lei.
— Non ti avvicinare oltre — ingiunse la ragazza, in inglese moderno, tenendo il bastone davanti a sé come fosse un fucile e puntandogli contro l'estremità spezzata in maniera irregolare.
— Sono io, Kivrin, il Signor Dunworthy — replicò lui, continuando ad avanzare.
— No! — esclamò lei, protendendo di scatto in avanti il manico della pala spezzata. — Non capisci. Qui c'è la peste.
— È tutto a posto, Kivrin. Siamo stati vaccinati.
— Vaccinati — ripeté lei, come se non capisse cosa significava quella parola. — È stato il segretario dell'inviato del vescovo. Quando sono arrivati era già stato contagiato.
Colin si avvicinò di corsa e lei sollevò di nuovo il bastone.
— È tutto a posto — ripeté Dunworthy. — Questo è Colin, e anche lui è stato vaccinato. Siamo venuti per portarti a casa.
Lei lo guardò fisso per un intero minuto, mentre la neve continuava a cadere intorno a loro.
— Per portarmi a casa — disse, con voce priva di espressione, e abbassò lo sguardo sulla tomba ai propri piedi, più corta e stretta delle altre, come se contenesse un bambino.
Dopo un altro minuto risollevò lo sguardo su Dunworthy, e ancora non c'era espressione sul suo volto.
Sono arrivato troppo tardi, pensò lui, con disperazione, guardandola ferma lì nella casacca insanguinata, circondata da tombe. L'hanno già crocifissa.
— Kivrin… — cominciò.
— Dovete aiutarmi — affermò lei, lasciando cadere la pala, poi si girò e si allontanò verso la chiesa.
— È certo che sia lei? — chiese Colin.
— Sì — rispose Dunworthy.
— Cosa le ha preso?
Sono arrivato troppo tardi, pensò Dunworthy, appoggiandosi alla spalla di Colin per cercare sostegno. Non mi perdonerà mai.
— Cosa c'è che non va? — domandò il ragazzo. — Si sente male di nuovo?
— No — garantì lui, ma attese ancora un momento prima di ritrarre la mano.
Kivrin si era fermata sulla soglia della chiesa e si stava tenendo di nuovo il fianco. Con un brivido, Dunworthy si disse che alla fine era stata contagiata. Aveva la peste.
— Stai male? — le chiese.
— No — rispose lei, ritraendo la mano e guardandola come se si aspettasse di vederla coperta di sangue. — Lui mi ha dato un calcio — spiegò, cercando di aprire la porta della chiesa, ma poi sussultò e lasciò che lo facesse Colin. — Credo che mi abbia rotto alcune costole.
Colin spinse il pesante battente di legno ed entrarono. Dunworthy sbatté le palpebre per l'improvvisa oscurità, cercando di imporre ai suoi occhi di adeguarsi ad essa. Dalle strette finestre non filtrava la minima luce, anche se era in grado di stabilire dove si trovavano; nella penombra poteva distinguere una sagoma bassa e massiccia più avanti sulla sinistra… un corpo?… e le masse più scure dei primi pilastri, ma più oltre non si scorgeva nulla. Accanto a lui, Colin stava frugando nelle tasche dei suoi calzoni sformati.
Più avanti una fiamma tremolò, senza illuminare nulla tranne se stessa, e si spense.
— Aspettate un momento — disse Colin, e accese una torcia tascabile.
Il suo bagliore accecò Dunworthy, avvolgendo ogni cosa al di fuori del suo raggio di luce nello stesso fitto buio che si era trovato di fronte appena entrato. Colin diresse la luce in giro per la chiesa, sulle pareti dipinte, sui massicci pilastri, sul pavimento ineguale, e sull'oggetto che Dunworthy aveva creduto essere un corpo. Si trattava di una tomba.
— Lei è laggiù — disse Dunworthy, indicando verso l'altare, e Colin si affrettò a dirigere da quella parte il fascio luminoso.
Kivrin era inginocchiata accanto a qualcuno che giaceva sul pavimento davanti alla parete divisoria. Quando si avvicinò maggiormente, Dunworthy vide che si trattava di un uomo, con le gambe e la parte inferiore del corpo nascoste da una coperta purpurea e con le grandi mani incrociate sul petto. Kivrin stava cercando di accendere una candela con un carbone ardente, ma ormai la candela si era consumata trasformandosi in un deforme moncherino di cera e rifiutava di restare accesa. Quando Colin si avvicinò con la torcia, la ragazza parve accogliere con gratitudine la luce che piovve su di loro.
— Mi dovete aiutare con Roche — disse, socchiudendo gli occhi per il chiarore improvviso, e si protese verso l'uomo per prendergli la mano.
Crede che sia ancora vivo, pensò Dunworthy.
— È morto questa mattina — aggiunse però subito Kivrin, in un tono piatto e asettico.
Colin diresse la luce della torcia sul corpo: le mani dell'uomo erano quasi purpuree come la coperta sotto quell'illuminazione violenta, ma il volto era pallido e assolutamente sereno.
— Chi era, un cavaliere? — chiese il ragazzo, in tono pieno di meraviglia.
— No — rispose Kivrin. — Un santo.
E posò su quella del morto la propria mano callosa, insanguinata e con le unghie nere di sporcizia.
— Mi dovete aiutare — ripeté.
— Aiutarti in che cosa? — volle sapere Colin.
Vuole che l'aiutiamo a seppellirlo, si disse Dunworthy, ma non possiamo farlo.