— Non capisco come sia potuto accadere. Non era mai successo prima. Io…
Noelle aveva sempre detto che la voce di Yvonne risuonava nella sua mente con incredibile chiarezza, pura, cristallina. Evidentemente non le era mai accaduto niente del genere prima di allora, e la cosa la preoccupava e la spaventava molto.
— Secondo me è solo stanchezza — suggerì lui con il massimo tatto. — Lei non mi sembrava stanca prima; forse era stanca Yvonne.
Noelle sorrise. Ma ormai lui la conosceva abbastanza da sapere che quel sorriso esorcizzava solo la preoccupazione esteriore. Dentro di lei, in realtà, Noelle era agitata più che mai.
Il comandante inserì il cubo nel lettore e la voce di Noelle riempì la stanza. Ma non si trattava della sua solita voce: era la strana voce piena di tensione che aveva anche un attimo prima. Spesso indugiava su certe parole, e talvolta chiedeva apertamente a Yvonne di ripetere questa o quella frase. Il messaggio dal loro pianeta, il quotidiano contatto con ciò che era loro familiare, consisteva delle solite chiacchiere e non presentava mai alcuna sorpresa. Quella faccenda delle scariche statiche lo disturbava parecchio. Possibile che da lì a pochi giorni il legame con la Terra cessasse all’improvviso? Era l’inizio di un inesplicabile degrado del contatto mentale tra Noelle e Yvonne che avrebbe condotto al totale isolamento dell’astronave in un regno di totale silenzio?
E se era così? E se il legame telepatico fosse caduto all’improvviso? Il contatto tra Noelle e Yvonne era di tipo non-relativistico. Le loro parole attraversavano istantaneamente lo spazio, superando di gran lunga la velocità della luce e la stessa velocità non-relativistica della Wotan, lanciata a sua volta nelle pieghe topologiche del non-spazio a velocità immensa ma calcolabile. Senza il ponte telepatico sarebbero dovuti tornare alle normali trasmissioni radio per mantenere il contatto con la Terra: a quella distanza, i loro messaggi avrebbero impiegato circa vent’anni per arrivare a destinazione, più vent’anni a tornare.
Poi il comandante si chiese perché quella prospettiva lo turbava tanto. L’astronave era autosufficiente; non aveva bisogno del contatto con la Terra per funzionare a dovere, né il suo equipaggio otteneva particolari benefici dalle quotidiane informazioni su ciò che avveniva sul pianeta madre, un pianeta che dopotutto aveva scelto di abbandonare. E quindi perché gli importava tanto se scendeva il silenzio? Perché non accettare semplicemente il fatto che, nella peggiore delle ipotesi, non erano più legati alla Terra in alcun modo, che stavano diventando virtualmente una nuova specie mentre procedevano a velocità maggiore di quella della luce verso una nuova vita tra le stelle? Lui non era un uomo sentimentale, come del resto non lo era quasi nessuno a bordo. Per lui, per loro, la Terra assomigliava tanto a un vecchio baule. Un ammasso di storia ammuffita, un ricordo evanescente di re e imperi arcaici, di religioni estinte, di filosofie fuori moda. La Terra rappresentava il passato; la Terra era semplice archeologia; la Terra era essenzialmente inesistente. E quindi, se l’ultimo legame si spezzava, perché dolersene?
Perché a lui importava. Non della Terra, ma dell’ultimo legame. Doveva avere a che fare con la funzione simbolica di quel viaggio per la gente della Terra, si disse, con il fatto che loro costituivano il punto focale di tante aspirazioni, di tante aspettative. Se il contatto andava perduto, il successo o l’insuccesso del tentativo di creare una nuova Terra su un distante pianeta non avrebbe avuto senso per coloro che avevano lasciato.
E riguardava anche ciò che provava per il viaggio in sé, per l’intenso, pulsante grigiore del non-spazio in cui avanzavano: quell’interscambio di energia, quel crescente senso di legame universale. Non ne aveva parlato con nessuno, ma era certo di non essere il solo a provare quelle sensazioni. Lui e, senza dubbio, qualche suo compagno di viaggio compivano nuove scoperte ogni giorno, non astronomiche ma spirituali, e il comandante pensò con rammarico alla grande perdita che comportava l’impossibilità di trasmettere tutto ciò all’umanità. No, il collegamento doveva restare aperto.
— Secondo me — ripeté — è solo stanchezza. Forse lei e Yvonne dovete riposare qualche giorno prima di riprovare.
Una celebrazione: la conclusione del sesto mese dal giorno in cui la Wotan si era tuffata nello spazio profondo, abbandonando l’orbita terrestre. L’intero equipaggio dell’astronave si ritrovò nella sala comune, occupando anche parte del corridoio. Vi furono grandi risate, parecchie bevute, molti flirt e grandi, stonatissimi cori. Tutti si divertirono, anche se nessuno sapeva perché stavano festeggiando una cosa tanto banale.
— È perché non siamo ancora abbastanza lontani — suggerì Leon. — Abbiamo un piede nello spazio e uno sulla Terra, così usiamo ancora il vecchio calendario e ci attacchiamo a questa o a quella data. Ma anche questo cambierà, un giorno.
— Sta già cambiando — osservò Chang. — Quand’è stata l’ultima volta che avete usato qualcosa di diverso dal calendario dell’astronave per i vostri calcoli?
— Ah, non importa il calendario che uso — replicò Leon. Era il responsabile medico di bordo, un uomo di bassa statura dal torace robusto e la voce che ricordava una colata di ghiaia e cemento. — Io uso il calendario dell’astronave, certo, ma tutti noi facciamo ancora riferimento alle date terrestri. Il fatto è che non vogliamo scordarle. Tutti noi usiamo una sorta di doppio calendario. E io credo che continueremo a farlo fino a quando…
— Felice sesto mese! — urlò Paco proprio in quel momento. Era accaldato, e i suoi occhi scuri e infossati rilucevano per il ridere e il bere. — Sei mesi ammassati in tre misere sezioni di questo orrore tecnologico e ancora riusciamo a parlarci: evviva! È un miracolo, un autentico miracolo! — gridava, stringendo in ciascuna mano un bicchiere di vino rosso. Per la festa, il comandante aveva autorizzato l’equipaggio a dar fondo alla riserva di vino. Da quel momento in poi avrebbero bevuto solo vino sintetico, prodotto a bordo dell’astronave. Non sarebbe stata più la stessa cosa: tutti lo sapevano.
Paco non era ubriaco come sembrava, ma lo era abbastanza da volersi far notare a tutti i costi. Fendeva la folla urlando ai quattro venti i suoi proclami. — Bevete! Divertitevi! — Alla fine urtò in pieno Marcus, il planetografo, che barcollò e quasi cadde a terra. Tuttavia fu proprio Marcus a scusarsi: lui era fatto così. Un attimo più tardi Sieglinde passò accanto a Paco, che non si lasciò scappare l’occasione per porgerle il bicchiere di vino in più che teneva in mano e quindi per passarle il braccio appena liberato attorno alla vita. — Tanz mit mir, liebchen - disse. Le vecchie lingue venivano ancora parlate, anche se non da tutti. — Mostrami come si balla il valzer, Sieglinde! — Lei rispose con un’occhiata gelidamente teutonica, ma si trattenne. Si trovava a un party, dopotutto. I due facevano una coppia semplicemente assurda: lei più alta di lui di almeno due spanne, compassata e decisamente brutta, lui bello e fin troppo sciolto. Tuttavia, apparire assurdo era proprio ciò che voleva Paco. I due volteggiarono tra la folla in un goffo roteare soltanto simile al valzer, mentre lui la teneva a distanza, appoggiando un braccio rigido sulla sua vita e brindando al contempo a destra e a manca con il bicchiere che teneva nella mano libera.
Il comandante, unitosi tardi alla festa e in quel momento solo e tranquillo sul lato della sala comune dove si trovano le scacchiere di Go, vide Noelle dalla parte opposta, anch’essa sola. Si preoccupò subito per lei, cieca e indifesa in un ambiente pieno di gente ubriaca. Ma Noelle sembrava divertirsi e sorrise, perché proprio in quel momento Julia e Michael le si avvicinarono dicendole qualcosa. Noelle annuì. Le avevano chiesto se voleva qualcosa da bere, si disse il comandante, perché subito dopo Michael riempì un bicchiere di vino.