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L’ultima festa era stata sei mesi prima, alla vigilia della partenza. Non molto era cambiato, nel frattempo: alcuni erano sempre timidi e riservati, altri spavaldi e fracassoni. Tutti si conoscevano molto superficialmente, nonostante le sedute di approfondimento: nomi, capacità professionali… e poco di più. Nessuna profondità, nessun vero contatto. Ma andava ancora bene, dopotutto: avevano tempo, un sacco di tempo. Alcune coppie si erano formate già prima del lancio: Paco e Julia, Huw e Giovanna, Michael e Innelda. Nessuna di queste relazioni era durata a lungo, ma anche questo andava bene. L’equipaggio dell’astronave consisteva di venticinque maschi e venticinque femmine, tutti giovani: la speranza era che tutti si sarebbero uniti formando delle coppie stabili per poi procreare sul nuovo mondo, ma molto probabilmente solo la metà dei cinquanta nuovi coloni lo avrebbe fatto. Gli altri erano destinati a restare soli per tutta la vita, o a passare da una complicata relazione all’altra senza fermarsi né riprodursi, proprio come accadeva sulla Terra. Tuttavia, ciò non avrebbe comportato una grande differenza: trasportavano abbastanza embrioni da garantire la crescita della popolazione per molti secoli a venire, e sposarsi non era mai stata una condizione indispensabile per mettere al mondo un figlio.

Le feste non facevano parte del modo di vivere del comandante. Introverso e alquanto solitario per natura, segnato nello spirito dal ventoso ritiro nel monastero artico di Lofoten, affrontava quel genere di eventi come aveva affrontato la necessità di impersonare altri caratteri durante la sua breve carriera di attore. Ma, dopotutto, divertirsi un po’ non faceva male, e così bevve con gli altri alla festa dei sei mesi, tutta la notte fino a crollare.

Partecipare alla festa di sei mesi prima aveva invece richiesto tutte le sue capacità drammatiche. Il comandante, appena eletto, si era aggirato per la sala comune ridendo, distribuendo pacche sulla schiena e scambiando battute con tutti. Era l’attrazione della serata, dopotutto.

E poi venne il giorno del lancio. Anche quello aveva richiesto tutto il suo impegno. L’evento più teatrale del secolo, altro non era, concepito per ottenere il massimo impatto psicologico su chi restava a casa. Il mondo intero osservava mentre i cinquanta fortunati prescelti, vestiti per l’occasione in sgargianti, assurdi abiti da cerimonia, emergevano dal loro dormitorio e marciavano solennemente verso la navetta, come una processione di eroi omerici in procinto di salire sul vascello che li avrebbe portati a Troia.

Come odiava tutta quella pompa, tutta quella finzione. Ma naturalmente la partenza della prima spedizione interstellare della storia non era un evento secondario. Andava messa in risalto con una coreografia appropriata. E quindi loro dovettero avanzare con ostentata superiorità verso il grande portello aperto: il comandante per primo, Noelle accanto a lui e quindi Huw, Heinz, Giovanna, Julia, Sieglinde, Innelda, Elliot, Chang, Roy. E via via fino a Michael, Marcus, David, Zena, cinquanta persone in un gruppo stranamente assortito, bassi e alti, grassi e magri: gli emissari della razza umana in partenza verso l’immenso universo.

Su nella navetta fino alla Wotan, che li attendeva in un’orbita bassa di parcheggio. E poi, nuove celebrazioni. Le stelle del momento, attori, sportivi, politici, fecero a gara per stringere loro la mano e augurare buon viaggio. All’improvviso, tutti si eclissarono, e loro restarono soli a bordo. Qualche ora per ambientarsi, per ritirarsi nelle cabine… per cosa? Preghiere, meditazione, sesso, contemplazione dell’assurdità delle umane pretese?… prima del momento della partenza.

Si tenne la riunione generale nella sala comune, e ci fu il primo discorso formale del comandante al suo equipaggio

— Voglio ringraziarvi tutti per il dubbio onore che mi avete concesso. Spero di non darvi mai motivo di pentirvi della vostra scelta. Tuttavia, se ve ne pentirete, ricordate che un anno dura solo dodici mesi.

La folla sorrise a malapena. Le battute non erano mai state il suo forte.

Qualche parola ancora e fu tempo di tornare nelle cabine. Uscendo dalla sala comune a gruppetti di tre o quattro, la gente si fermò davanti alle grandi vetrate del corridoio per dare un’ultima occhiata alla Terra, grande, azzurra e pulsante di vita al centro del cristallo. In qualche punto invisibile sul lato opposto dell’astronave c’erano la Luna e il Sole: tutto ciò che uno dà per scontato, stabile e permanente.

Pian piano si faceva strada tra di loro la consapevolezza che la Wotan avrebbe costituito tutto il loro mondo da quel giorno in poi, e che avrebbero dovuto vivere gomito a gomito là dentro per chissà quanto tempo.

Gli altoparlanti dell’astronave diffondevano musica. Beethoven, probabilmente. Comunque qualcosa dal suono titanico scelto apposta per la sua sublime, trascendentale energia. Insomma, Beethoven. — Prepararsi per il lancio — annunciò il comandante sovrapponendosi alla musica. — Meno dieci. Nove. Otto… — Tutta quella sceneggiata, quella teatrale e inutile riproposizione dei drammatici conti alla rovescia dei primi lanci spaziali. Ma il mondo intero li stava guardando. La felice, protetta popolazione della Terra stava dicendo addio agli ultimi avventurieri: un grande momento, l’inizio di una grande speranza. La speranza che quei cinquanta giovani sani e tormentati riuscissero a riportare in luce l’antico vigore della specie umana, su qualche pianeta selvaggio sufficientemente lontano. — Sei. Cinque. Quattro.

Il conto alla rovescia non serviva a nulla, naturalmente. Tutto il lavoro veniva svolto dai marchingegni nascosti in un’altra sezione dell’astronave. Ma il comandante conosceva il suo ruolo nella commedia, e controllò gli schermi con aria marziale, inserendo qualche dato.

— Partenza — disse infine.

La sua voce suonò drammatica, ma mai a sufficienza per l’importanza dell’evento. Non vi fu alcuna vibrazione quando i propulsori interstellari si attivarono, nessuna oscillazione, niente di avvertibile. Il sistema solare sparì dalla vista sostituito da uno strano, perlaceo grigiore. La Wotan penetrò lentamente nel tunnel privo di materia del non-spazio, per iniziare il suo lungo viaggio verso una destinazione ignota.

Anniversario del sesto mese dalla partenza. Qualcuno accanto a lui lo strappò improvvisamente ai suoi ricordi. Elizabeth, ecco chi era. Un sorriso e si ritrovò un bicchiere di vino in mano.

— L’ultima bottiglia di vero vino, comandante. Non vorrà perdere l’ultimo assaggio — disse lei. Elizabeth aveva chiaramente già avuto la sua parte, ma non sembrava intenzionata a fermarsi. — “Bevi! Poiché non sai da dove sei venuto, né perché; bevi! Poiché non sai perché devi andare, né dove.”

Stava di nuovo citando qualcosa, capì il comandante. Certo che la mente di quella ragazza era un magazzino di vecchi poemi. — Shakespeare? — le chiese.

— Il Rubaiyat - dichiarò lei. — Lo conosce? “Vieni, riempi la tazza e nel fuoco della primavera getta la veste dell’invernale pentimento.” — Elizabeth sembrava molto ubriaca. E proprio mentre il comandante si portava il bicchiere di vino alla bocca, lei mosse un passo avanti sfregandoglisi contro, portando avanti la testa; ma lui si mantenne in equilibrio e non una goccia di vino venne versata. — L’uccello del tempo — gridò lei — ha ben poco da volare! Ed ecco… l’uccello è già volato!

Di nuovo barcollante, Elizabeth quasi cadde a terra. Il comandante la sorresse immediatamente con un braccio, rimettendola in piedi; ma lei gli si schiacciò contro avidamente, avvicinandosi al suo orecchio e sussurrando non già poemi, ma oscenità esplicite. Sorpreso e vagamente divertito, il comandante guardò la letterata, poco voluttuosa Elizabeth: distinguere le sue parole biascicate era difficile nell’assordante rumore della festa, ma bastava afferrarne una ogni tanto per capire che lo stava invitando a seguirla nella sua cabina.