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Era tempo di tornare nella sala comune. Il comandante intendeva tenere un discorso all’equipaggio al completo prima di partire. Con molta calma, Noelle avanzò lungo i corridoi dell’astronave, sfiorando con le dita ora questa, ora quella parete, inalando quella strana, sterile aria con grandi respiri, per familiarizzarsi con quella che sarebbe diventata la sua casa, cercando di localizzare le varie porte, gli odori e le irradiazioni di calore e di freddo che venivano dalle prese d’aria poco più in alto del pavimento. Era già stata a bordo due volte durante il corso d’istruzione, e quindi cominciava ad avere un’idea della disposizione interna dei locali. L’astronave era stata assemblata interamente nello spazio, poiché era quanto di meno aerodinamico si potesse immaginare, e perché assoggettarla alla potente spinta necessaria per abbandonare il pozzo gravitazionale terrestre poteva mettere a repentaglio la sua integrità. Per mesi, anni, orde di cargo di tutti i tipi avevano fatto la spola tra quel punto e le basi sulla Luna, portando con loro tonnellate di pezzi prefabbricati via via che la struttura originaria cresceva in dimensioni e complessità. Poi era arrivato il momento di scegliere i membri dell’equipaggio, riunirli, portarli lì e insegnare loro ogni segreto della strana nave spaziale in cui dovevano vivere un buona parte della loro vita, forse anni, forse sino alla fine dei loro giorni.

Yvonne sarebbe stata ancora lì, una volta partiti, si ripeteva Noelle. Perché quella volta non doveva succedere?

Non c’era alcun motivo di pensare che il legame telepatico potesse spezzarsi nello spazio. Tuttavia era vero anche l’opposto. Lei e Yvonne rappresentavano un fenomeno decisamente raro, e nessuno aveva mai potuto studiare l’effetto delle distanze cosmiche su due gemelle unite da un fortissimo ponte telepatico. E quindi nulla, se non la fede, poteva supportare l’ipotesi che il contatto tra loro due non risentisse affatto della distanza; ma la fede l’aveva sostenuta solo fino al momento in cui si era fatta prendere dal panico. Lei e Yvonne non si erano parlate spesso da un capo all’altro del pianeta senza la minima difficoltà?

Già. Ma questo valeva anche se a dividerle non era un pianeta, ma una galassia?

Le ultime ore prima della partenza volarono via. L’astronave era piena di gente, la maggior parte estranea all’equipaggio. Noelle ne avvertiva la presenza tutt’intorno a lei: uomini, molti uomini. Sentiva le loro voci profonde e il loro odore penetrante. C’erano anche delle donne, come rivelava il frusciare di diversi tipi di indumenti, vesti sottili, bluse increspate e il tintinnio dei gioielli. Tutti sembravano particolarmente tesi: lo avvertiva dall’odore, dalla particolare atmosfera che si respirava, dall’esitazione quasi impercettibile con cui parlavano.

Be’, perché non essere tesi? Ancora poco e i motori si sarebbero accesi, facendo entrare in gioco forze ancora ignote in grado di far praticamente sparire nel nulla l’astronave.

Qualche prova era già stata compiuta, naturalmente. Il progetto aveva circa un secolo. Si cominciò con sonde automatizzate destinate a viaggi brevi in quella dimensione sconosciuta. Dopo qualche anno, cioè dopo l’intervallo imposto dalle radiotrasmissioni, si ricevettero i loro segnali radio, a conferma del successo di quelle missioni. Una volta constatata la possibilità di viaggiare nel non-spazio, toccò alle prime navette con equipaggio umano, la Columbia e la Ultima Thule, nomi antichi destinati a nuova gloria. La Columbia coprì in pochi giorni una distanza pari a undici mesi-luce, la Ultima Thule pari a quattordici. Entrambe tornarono sulla Terra senza alcun problema. Il viaggio dell’Ultima Thule risaliva a sette anni prima, e i lunghi colloqui con il suo equipaggio fecero parte integrante dell’addestramento dell’equipaggio della Wotan, che doveva necessariamente sapere cosa si provasse a viaggiare nel non-spazio. Difficilmente però si poteva esprimere a parole un insieme di sensazioni tanto complesse, e così i colloqui non servirono praticamente a nulla, soprattutto per Noelle.

E poi la Wotan, un altro nome antico, un dio villoso, indomito e impulsivo delle foreste nordiche, fu pronta a partire. “E tu, Noelle?” si chiese. “Sei pronta a partire?”

Discorsi finali. Un sacco di fanfara. Trombe e tamburi accompagnarono alla porta politici e scienziati convenuti per vederli partire. Il comandante, eletto il giorno prima per un anno, uno scandinavo taciturno con una voce meravigliosamente musicale, disse loro di prepararsi alla partenza. Forse con quello intendeva invitarli a recitare tutte le preghiere che conoscevano, o comunque a fare ciò che più credevano opportuno per placare le loro menti in attesa di compiere l’irrevocabile balzo che li avrebbe portati da una vita a un’altra.

“Yvonne? Mi senti?”

“Ma certo.”

“Stiamo per partire.”

“Lo so. Lo so.”

Non vi fu alcuna sensazione di accelerazione. Perché avrebbe dovuto esservi? Non si trovava su una delle navette che collegavano la Terra alla Luna o a qualche colonia spaziale. Non c’erano forti propulsori a bordo, solo una coppia di motori convenzionali relativamente modesti, da usare per le esplorazioni planetarie. Nessuna spinta veniva applicata, nessuno dei tradizionali schemi di accelerazione. Tuttavia, qualche sorta di motore stava per attivarsi nelle viscere dell’astronave, un motore in grado di generare delle forze in gran parte ancora ignote. L’astronave si muoveva, certo, ma non in senso newtoniano e comunque non in senso einsteniano. Perché si trattava di un movimento dallo spazio al non-spazio, dove non si poteva applicare la relatività. Massa, inerzia, accelerazione, velocità rappresentavano dei concetti irrilevanti in quella nuova dimensione. Prima si trovavano nello spazio convenzionale a qualche migliaio di chilometri dalla superficie della Terra, e un attimo dopo fluttuavano, silenziosi come comete, attraverso un tunnel che si apriva in un universo pieghettato e chiuso su se stesso. Era un universo alternativo ma adiacente e parallelo all’universo empirico delle stelle e dei pianeti, della massa e dell’energia, della gravità e dell’inerzia, dei fotoni, degli elettroni, dei neutrini e dei quark, della terra, fuoco, aria e acqua. Presi in una sorta di inconcepibile flusso, proiettati a velocità impossibile attraverso un grigiore totalmente vuoto, un’oscurità mille volte più nera delle tenebre in cui Noelle aveva passato la sua vita.

Era avvenuto, sì. Noelle non aveva dubbi al riguardo. Per un attimo le era sembrato di trovarsi sul ciglio di un abisso infinito. E poi si rese conto di trovarsi nel non-spazio. Qualcosa era avvenuto; qualcosa era cambiato, qualcosa di impossibile da definire e da quantificare. Forze al di là della sua comprensione, alimentate da misteriose energie che spaziavano nell’universo da parte a parte, erano entrate improvvisamente in gioco, proiettando senza la minima vibrazione la Wotan dall’universo concreto ed empirico, l’universo dello spazio, del tempo e della materia, in questo altro spazio. Sapeva che era accaduto, ma non aveva idea di come facesse a saperlo.

“Yvonne, mi senti? Yvonne?”

La risposta arrivò all’istante con assoluta chiarezza. Non riuscì neppure a provare paura. La voce di Yvonne risuonò nella sua mente, calda e confortevole.

“Ti sento perfettamente.”

Il contatto era puro e cristallino, chiaro come sempre. E così rimase giorno dopo giorno.

Durante le prime, strane ore di viaggio, Noelle e Yvonne interruppero raramente il contatto, ma sebbene l’astronave continuasse ad allontanarsi la trasmissione non diede alcun percettibile segno di degrado. Pareva loro di trovarsi in stanze adiacenti. Oltre la distanza orbitale della Luna, oltre il milionesimo chilometro, oltre la distanza orbitale di Marte; il contatto restò nitido e forte. Le due gemelle avevano superato una sorta di prova scientifica: la chiarezza del contatto non era una funzione quantitativa della distanza, almeno fino ad allora.