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— Già, questa discussione è basata sul niente — ribadì Heinz. Tuttavia è vero che siamo inquieti. Viviamo da mesi in questo ambiente ristretto e pensiamo troppo. E quando si pensa troppo, è facile scivolare nelle ipotesi più assurde. Basta parlare di guasti al propulsore, Sieglinde. Non troveremo mai un pianeta su cui vivere, se la possibilità che qualcosa vada storto ci spaventa al punto da impedirci di effettuare anche solo una missione esplorativa. Tutto questo si sapeva già al momento della partenza. Perché saltar fuori adesso con questo argomento? Se qualcuno avesse avanzato la stessa obiezione mentre lei cercava di andare avanti col suo lavoro, Sieglinde, scommetto che l’avrebbe mandato fuori dal suo laboratorio a calci — concluse Heinz senza più sorridere. Poi rivolgendosi al comandante disse: — La convinca a lasciar perdere, per favore, e aggiorniamo la riunione.

— Che ne dice, Sieglinde? — chiese il comandante. — Vuol lasciar cadere l’argomento?

Sieglinde si strinse nelle spalle. L’energia depressiva sembrava averla abbandonata improvvisamente com’era venuta. Il problema che le ronzava in testa era stato esposto, e non valeva la pena continuare a discutere. Aveva un’aria stanca e sconfitta e, con gran sollievo del comandante, sembrava pronta quanto gli altri a chiudere in quel modo la faccenda. Il punto da lei sollevato era maledettamente serio ma, come Heinz aveva fatto notare, quello non era il momento di discuterlo. E quindi, con voce quantomai piatta, Sieglinde acconsentì: — Come desidera lei, comandante. Come tutti voi desiderate.

In assenza di una specifica destinazione, l’astronave aveva seguito, fino a quel momento, una rotta generica attraverso il tunnel di non-spazio, limitandosi ad allontanarsi dalla Terra piuttosto che ad avvicinarsi a una specifica stella. La rotta che ancora manteneva l’avrebbe portata in una delle aree più dense di stelle e pianeti dei settori della galassia vicini alla Terra. Tuttavia, secondo i piani originari, i viaggiatori a un certo punto dovevano reindirizzare l’astronave per raggiungere una stella da loro scelta sulla base dei dati planetari raccolti nel corso del viaggio.

Ora quel momento era giunto. La Wotan doveva avvicinarsi alla stella primaria del pianeta A senza abbandonare il tunnel di non-spazio e, una volta raggiunto quel settore, doveva abbandonare il non-spazio per tornare nel continuum einsteniano, in modo da studiare il pianeta A con più accuratezza. Ciò significava entrare in orbita attorno al pianeta, inviare sonde, studiare le caratteristiche superficiali e pianificare un eventuale sbarco umano, se i risultati delle ricerche fossero stati in qualche modo incoraggianti.

Viaggiare nel non-spazio costituiva essenzialmente un fenomeno non lineare. Nell’universo einsteniano compiere un viaggio di tremila chilometri, per esempio tra Los Angeles e Montreal, significava coprire una distanza, e solo quella distanza, in senso lineare, mentre il tempo impiegato per viaggiare era una funzione del tempo medio impiegato per coprire un chilometro moltiplicato per tremila. Non vi erano scorciatoie, e nessuna eccezione al fatto che bisognava viaggiare per una distanza di tremila chilometri per spostarsi da una località all’altra. Nel non-spazio, invece, non era così. Le misure lineari applicate nel continuum classico non avevano alcun significato, così come le relazioni spaziali tra punti diversi dell’universo determinate con i sistemi tradizionali. Il non-spazio era una dimensione composta esclusivamente di “scorciatoie”. Lo spazio era appiattito, curvato, raddoppiato ancora e ancora e piegato su se stesso, e pertanto la logica de! viaggio lineare era inutile e i paradossi abbondavano. Le dimensioni erano collassate e trasformate; l’universo infinito era infinitamente adiacente a se stesso; concetti come “vicino”, “lontano”, “qui”, “là” andavano completamente eliminati. Nel non-spazio poteva risultare più rapido un viaggio tra due stelle distanti cinquanta anni-luce che tra due stelle distanti solo un anno-luce. Questo almeno era il risultato delle prime ricerche pratiche: non esisteva una relazione chiara e sempre valida tra la distanza effettiva di due punti nell’universo reale e il tempo impiegato per percorrere questa distanza nel non-spazio.

In ogni caso, anche nel non-spazio esistevano prossimità ed equivalenti. Con l’aiuto di un potente calcolatore e di programmi adeguati, si poteva tracciare una serie di trasformazioni che avrebbero trasportato un corpo fisico nel non-spazio lungo linee direttrici quasi geodetiche, linee che corrispondevano a vettori effettivi dello spazio einsteniano e che consentivano di raggiungere il settore di galassia prescelto. Così, almeno, dimostravano le equazioni che governavano il viaggio nel non-spazio, e nei viaggi sperimentali della Columbus e della Ultima Thule tali equazioni si erano dimostrate valide.

La Columbus aveva coperto una distanza leggermente inferiore a un anno-luce in undici giorni terrestri. Una volta giunta a destinazione, era rientrata nello spazio einsteniano per compiere le necessarie rilevazioni, misurando tra l’altro con massima precisione la distanza percorsa, per poi rientrare nel non-spazio senza difficoltà e tornare a casa nello stesso periodo di tempo. L’Ultima Thule, lanciata in una direzione diversa, si ritrovò a più di un anno-luce dalla Terra in soli nove giorni, e anch’essa poté uscire senza problemi dal non-spazio, rientrarvi e tornare sulla Terra seguendo la stessa rotta. E pertanto, nonostante l’improvviso e volontario scetticismo di Sieglinde, il comandante preferiva pensare che anche la Wotan sarebbe stata in grado di uscire e rientrare dal non-spazio senza difficoltà, così come di cambiare la rotta seguita fino a quel momento, per puntare sulla posizione einsteniana della stella attorno a cui orbitava il pianeta di loro interesse. Sapeva bene che le obiezioni di Sieglinde avevano qualche fondamento, perché il passaggio tra i due piani di spazio comportava qualche rischio, e più passavano dall’uno all’altro più mettevano a repentaglio la sicurezza dell’astronave e le loro vite. Tuttavia, dovevano trovare un nuovo pianeta su cui vivere, e questo comportava qualche inevitabile rischio. Sieglinde aveva ragione, ma doveva svegliarsi prima. Ecco perché non provava alcun rimorso per aver liquidato in quel modo le sue obiezioni al primo ritorno all’universo normale.

Ex officio, il comandante coordinava la squadra che avrebbe calcolato ed effettuato le necessarie manovre. A livello pratico, però, non sapeva nulla di quelle cose. Il vero lavoro lo avrebbe svolto la squadra: Roy e Sieglinde curavano gli aspetti matematici, Paco era l’ufficiale di rotta, Julia programmava e seguiva il propulsore interstellare, Heinz, uno dei progettisti dell’astronave, supervisionava e rivedeva il lavoro degli altri: era lui il vero comandante di questa operazione, l’interfaccia tra le varie persone e tra loro e le macchine, il punto di riferimento per tutti.

La prima riunione del gruppo, a carattere esclusivamente preliminare, stava per concludersi. Hesper vi aveva partecipato solo all’inizio, per spiegare agli altri la posizione effettiva del pianeta A nello spazio normale, calcolata sull’insieme di correlazioni da lui elaborate. Una volta uscito Hesper, gli altri consultarono a lungo le mappe celesti a loro disposizione e i circuiti di navigazione dell’astronave. Ma erano necessari altro tempo e altro impegno prima di effettuare il cambiamento di rotta vero e proprio. In effetti, il computer di bordo possedeva, almeno in teoria, le capacità e il controllo necessari per portarli fino a destinazione; tuttavia le sue capacità, per quanto ampie, avevano dei limiti come quelle dei suoi costruttori. Neppure il computer di bordo poteva interpretare con assoluta precisione delle istruzioni confuse. Ecco dunque che dovevano stabilire con assoluta precisione i passi necessari e le coordinate da raggiungere, prima di lasciare il controllo al computer. Nuovo lavoro li attendeva in futuro, quindi. E poi potevano solo pregare. Ma chi? E con quali speranze che le loro preghiere venissero effettivamente ascoltate?