Per il momento, comunque, ovuli e spermatozoi dovevano restare nei loro contenitori separati. Molti, probabilmente, vi sarebbero rimasti per secoli a venire. Infatti, venticinque coppie, anche se instabili, non avrebbero mai potuto garantire la diversità genetica necessaria a popolare un nuovo mondo. Ciò anche contando i figli e le figlie nate nello spazio. Ma grazie alle migliaia di embrioni e di cellule riproduttive conservate a bordo della Wotan, la razza umana sarebbe stata in grado di colonizzare la Nuova Terra.
Una singola, piccola lampada illuminava il nido d’amore del comandante: un modulo di sicurezza a forma di uovo, grande a malapena per due persone, posto tra una fila di congelatori e le loro consolle di monitoraggio. Il comandante lanciò un’occhiata all’interno e vide Julia sdraiata con aria casuale, le braccia dietro la testa e le gambe incrociate. I suoi vestiti erano ammucchiati fuori, su una sporgenza nel corridoio. Nel piccolo modulo, non c’era posto per svestirsi.
— Qualche problema? — chiese la ragazza.
— Già. Heinz — rispose lui, liberandosi alla svelta di giubba e pantaloni. — C’era qualcosa che sentiva di dovermi dire, e così mi ha trattenuto dopo la riunione per parlarne. Sembrava non volesse smettere mai!
— Qualcosa di serio?
— Nulla che già non sapessi — replicò lui.
Era nudo ormai. Lei lo chiamò con un cenno, e lui s’intrufolò tra le coperte, stringendola a sé. Julia sibilò di piacere quando lui si arricciò attorno al suo corpo freddo e snello. Aveva un corpo atletico, un corpo da centometrista con il ventre piatto e natiche perfette, senza un grammo di carne in eccesso. Le cosce erano lunghe e affusolate, le braccia forti e sottili con le linee bluastre delle vene leggermente abbozzate. Ogni giorno nuotava per almeno un’ora nella piscina delle terme; di quando in quando, il comandante si univa a lei, ma, nonostante la costituzione fisica abbastanza simile (anche lui un atleta indurito e temprato da una vita intera di disciplina) si ritrovava esausto dopo una decina di vasche, Julia, invece, proseguiva senza alcuna interruzione per un’ora intera, bracciata dopo bracciata, per uscire infine dall’acqua senza mostrare il minimo segno di stanchezza.
Anche i loro amplessi costituivano un evento soprattutto atletico: sentite incursioni nella pura passione, con misurato impiego di energia erotica, non complicate dalla presenza di emozioni. Julia era facile da scaldare ma lenta a consumare, e i due avevano sviluppato un certo modo di stringersi e di scivolare nel ritmo più appropriato che poteva continuare per un’ora intera, come se stessero nuotando. Era una copula piacevole e quasi discorsiva: iniziava piano, e attraversava gradualmente una serie di impercettibili accelerazioni del ritmo che indicavano, ognuna a suo modo, il lento avvicinarsi dell’orgasmo. Finalmente, lui si avvedeva di certi inconfondibili segnali nel corpo di lei, morbidi gemiti, improvviso ardore, spalle sudate: solo allora si lasciava andare. Saliva gradualmente di tono fino ai frenetici movimenti finali, assorbendo avidamente tutti gli stimoli che lei sapeva dargli per poi esplodere al momento ultimo, stracciando il totale autocontrollo che con tanta attenzione praticava.
Il comandante sapeva benissimo che ciò che lui e Julia facevano non aveva nulla a che fare con l’amore, ed era conscio che anche il sesso praticato semplicemente per il piacere poteva risultare molto più gratificante. Tutto ciò, però, lo lasciava completamente indifferente. L’amore non era poco importante per lui, ma cercarlo in quel momento non lo interessava affatto. La soddisfazione fisica che otteneva tra le braccia di Julia poteva anche scarseggiare di basi filosofiche, ma ripristinava in lui l’equilibrio e la calma che gli servivano per eseguire al meglio le sue funzioni di comandante, che era poi ciò che voleva veramente.
Julia prese a emettere i suoi caldi, familiari gemiti. Le sue dita avvertirono il consueto sudore preorgasmico inumidirle le spalle.
Ma stavolta accadde qualcosa di strano. Generalmente, quando lui e Julia facevano l’amore e raggiungevano quel punto, lui cadeva invariabilmente in una sorta di trance che non gli consentiva più di parlare o anche solo di pensare. La sua mente veniva coperta dalla vivida patina grigia che aveva appreso a sfruttare nei lunghi anni trascorsi al monastero di Lofoten, la stessa sfumatura di grigio che contemplava a lungo ogni volta che guardava fuori dalla grande vetrata nel corridoio, nel nulla risplendente del tunnel di non-spazio. Una volta raggiunto quel punto, tutti i suoi processi mentali erano sospesi a eccezione dei processi più elementari, poco più di tropismo, che riguardavano la continuazione dell’atto sessuale in sé.
Ma quel giorno le cose andarono in modo diverso. Quel giorno, quando raggiunse il punto cruciale che dava inizio alla loro intensa cavalcata verso il reciproco climax, l’immagine di Noelle occupò con prepotenza la sua mente.
Il suo volto gli fluttuò davanti, sospeso a mezz’aria: i suoi occhi chiari e ciechi, il naso delicato, la piccola bocca e l’elegante profilo affilato del mento. Era come se si trovasse in quell’alcova insieme a loro, fluttuando proprio davanti al suo naso, intenta a osservarli con una sorta di infantile curiosità. Il comandante perse completamente la sua trance, sommerso nel momento meno adatto da un torrente di emozioni in conflitto, vergogna e desiderio, colpa e gioia. Sentì la pelle infiammarglisi dall’imbarazzo per quella sconcertante intrusione nel momento finale del suo amplesso con Julia, e fu certo che quell’improvvisa confusione apparisse chiara alla sua costernata partner. Ma Julia non notò nulla di strano, o almeno non ne diede mostra, e continuò a muoversi come prima sotto di lui, occhi chiusi, labbra leggermente aperte e sorridenti, natiche contratte nelle costanti, rapide spinte ritmiche che la portavano sempre più vicina al suo obiettivo.
Una volta conclusi i preparativi, la squadra fu pronta a modificare la traiettoria dell’astronave per puntare verso il pianeta A. Quella modifica era principalmente un’operazione matematica. Infatti, i concetti della navigazione convenzionale non si applicavano in alcun modo a uno spazio non einsteniano e non euclideo: la Wotan non era altro che un flusso di probabilità, a quel punto, un’entità di Heisenberg nella migliore delle ipotesi e comunque qualcosa di non “reale”, nel senso che non era più soggetta alle leggi di azione e reazione di Newton o a qualsiasi altro concetto classico sulle meccaniche celesti. Tuttavia appariva solida e concreta come sempre ai suoi solidi e concreti occupanti. Il cambio di rotta veniva quindi eseguito tramite equivalenze e surrogati posizionali, non tramite l’impiego di concrete spinte termodinamiche lungo un particolare vettore spaziale. Il successo, in breve, veniva misurato in base ai cambiamenti nei sistemi di equazioni che governavano la traiettoria dell’astronave, non in base ai cambiamenti di direzione ottenuti con l’impiego di energia fisica.
Pertanto, Roy e Sieglinde svolgevano quasi tutto il lavoro, sovrapponendo alla posizione dell’astronave nello spazio einsteniano, determinata da Paco, i dati forniti da Hesper sulla rotta da prendere e calcolando gli appropriati equivalenti nel non-spazio. Paco, quindi, convertiva i dati ottenuti in coordinate spaziali necessarie per muovere da “qui” a “lì” e presentava i risultati a Julia che, lavorando in stretto collegamento con Heinz, inseriva le necessarie modifiche nel cervello elettronico che governava il propulsore stellare. Il computer produceva una simulazione del piano di volo, indicando la rotta da percorrere e le probabili conseguenze della decisione. L’ultimo passaggio era riservato al comandante, il vero responsabile di quelle manovre: spettava a lui esaminare la simulazione e concedere o negare il suo permesso. Solo allora il computer avrebbe riprogrammato il propulsore.