— Mi arrendo — disse. — Ormai non c’è più niente da fare.
— Credo anch’io — concordò Huw, tendendo la mano a Leon. — Una bella partita, dottore. Grazie.
— Lei è il benvenuto — replicò Leon non troppo cordialmente.
— Bene. Adesso scusatemi, ma credo che andrò a parlare al comandante.
Huw si alzò per uscire dalla sala comune. Era un uomo grande e grosso, arruffato, poco elegante; camminava con il passo sicuro e poderoso di chi marciava abitualmente lungo il ponte dei grandi cargo. Attraversando la sala comune, si fermò per un attimo accanto a Paco e gli diede un’amichevole manata sulla schiena, come per esprimere ammirazione per il suo spettacolo. Poi mandò un teatrale bacio a Sylvia e finalmente uscì, imboccando il corridoio verso la sala controllo dove in genere si trovava il comandante quando era in servizio.
Huw e il comandante erano vecchi amici, sempreché qualcuno potesse dirsi amico del comandante. Unici tra tutti, avevano lavorato insieme prima di essere scelti per quel viaggio. Ma a differenza del comandante, che sembrava far di tutto per ripartire da zero con una nuova carriera ogni dieci, dodici anni, Huw si era dedicato fin da giovanissimo alla geografia e alla mappatura dei pianeti del sistema solare. La sua era una natura da esploratore: sembrava quasi che il suo DNA contenesse qualche tipo di gene da nomade a tenere sempre viva in lui la fiamma della curiosità, una cosa davvero insolita per la sua epoca. La gioia più grande gli veniva dal viaggiare, dall’esplorare i regni dell’universo, dal conoscere tutto ciò che c’era da conoscere e da vedere. Anzitutto le lune e i pianeti più vicini alla Terra, naturalmente, quindi la periferia del sistema solare. Ma il suo sogno era far parte della prima traversata interstellare, allo studio già prima della sua nascita, e così dedicò la sua vita allo studio e allo sviluppo di navette, dispositivi e programmi informatici per l’esplorazione di ambienti estranei. Huw era un discendente, così almeno affermava, del principe Madoc del Galles, che nel dodicesimo secolo partì verso ovest con duecento seguaci, attraversò l’Atlantico e giunse in una terra sconosciuta, dove vide molte cose strane. Tornato in patria, reclutò dei volontari e partì di nuovo alla volta del Nuovo Mondo, fondando una comunità di gallesi timorati di Dio e cercando di convertire gli Aztechi e gli altri pagani al cristianesimo.
Davvero era andata così? Ma certo, rispondeva Huw. La storia del viaggio di Madoc era proprio lì, nelle cronache di Caradoc di Llancarfan, la Historia di Cambria, ora chiamata Galles, e chi poteva mai permettersi di definire un bugiardo il grande Caradoc? Era ormai dimostrato, anzi, secondo Huw era un dato di fatto, che certe parole azteche assomigliavano molto al gallese, e che certi indiani delle grandi pianure (peraltro molto più a nord) parlavano l’antica lingua del Galles come veri Siluri quando più tardi arrivarono gli esploratori europei. Ma davvero nelle vene di Huw Morgan scorreva il sangue di Madoc? E chi poteva mai sognarsi di negarlo? Non c’era al mondo un singolo gallese che non potesse, in un modo o nell’altro, tracciare il proprio albero genealogico. Tutti affondavano le radici nelle famiglie dei grandi re del passato, e Madoc era stato il più grande dei grandi re: non c’era dubbio al riguardo.
E così quei gioviale, rubicondo discendente di Madoc lasciò i verdi e placidi precinti della felice Terra per imbarcarsi su un proiettile d’argento ed esplorare le grandi e bruciate pianure di Mercurio, vagare nelle polverose distese di Marte e rischiare la vita nella corrosiva atmosfera di Venere. Progettava e costruiva l’attrezzatura che lo proteggeva, i mezzi di terra corazzati e sigillati e le ingombranti tute spaziali. Una volta finito con Venere, si lasciò attrarre dalle lune dei pianeti esterni. Fuori, sempre più fuori: e fu su Ganimede, luna di Giove, che la sua vita si intrecciò con quella di colui che doveva diventare il primo comandante della Wotan.
I due si conoscevano già, naturalmente. La popolazione della Terra era tanto ridotta in quel periodo e il numero di coloro che amavano il rischio tanto limitato che difficilmente potevano evitare di sentir perlomeno parlare l’uno dell’altro. Ma anche un pianeta piccolo come la Terra era abbastanza grande da consentire a due uomini con lo stesso interesse di vivere senza incontrarsi, soprattutto se i due uomini in questione amavano compiere periodiche escursioni sugli altri pianeti del sistema solare.
La “vita” era ciò che cercava l’uomo che un giorno sarebbe diventato il primo comandante della Wotan. Non la sua vita; quella l’aveva già trovata e sapeva perfettamente dove era localizzato il centro. No, lui cercava la vita al di fuori di se stesso, molto al di fuori, la vita sugli altri pianeti. Mercurio ne era privo: il Sole l’aveva bruciato in profondità nelle terribili ore di luce tra i lunghi periodi di gelido buio. Venere presentava un territorio troppo accidentato, impossibile da esplorare con completezza, anche se non era impossibile che qualche microorganismo in grado di adattarsi al tremendo calore superficiale e al cielo di monossido di carbonio si fosse evoluto negli anfratti più nascosti. Dunque non aveva trovato niente. E su Marte, il fosco, rosso e polveroso Marte, alcuni microfossili vecchi di quattro miliardi di anni parlavano di antichi protozoi e batteri, ma non sembrava che avessero lasciato dei discendenti su quel duro, poco invitante pianeta.
Le lune di Giove e di Saturno però… Io, Callisto, Giapeto, Titano, Ganimede…
— Vado in cerca di batteri su Ganimede — disse l’uomo che un giorno avrebbe comandato la Wotan cinque minuti dopo il primo incontro con Huw. — Ho bisogno di una slitta corazzata e di una tuta spaziale in grado di resistere a una tempesta di protoni. E poi avrei bisogno che lei venisse con me.
I due erano profondamente diversi. Huw, allegro, esuberante, espansivo, si sorprese parecchio dell’affinità che provava per una persona tanto fredda, lontana, inaccessibile. Ma forse era semplicemente attratto da un carattere radicalmente opposto al suo, da una personalità totalmente speculare. E, comunque, stavano cercando la stessa cosa.
Huw restò perplesso per la strana combinazione di temerarietà e rigore che caratterizzava la mente del suo nuovo amico scandinavo. Il futuro comandante gli raccontò di aver abbandonato per un po’ la carriera scientifica per cercar fortuna nel teatro, una decisione che non aveva senso per Huw, come non aveva senso quell’insolita ricerca del trascendentale che ogni tanto il suo nuovo amico palesava, una ricerca dal sapore decisamente medievale per lui. Molto presto, però, i due uomini scoprirono di lavorare a meraviglia insieme: entrambi erano senza paura, coraggiosi, determinati a cercare cose al di fuori della tranquillità stagnante della smidollata società in cui erano nati.
E quindi partirono insieme per Ganimede.
Ganimede era la più grande delle lune di Giove, un’immensa palla di ghiaccio butterata da un bombardamento che durava da miliardi di anni e scavata dai costanti sussulti di poderose forze interne. Un tempo possedeva un’atmosfera, successivamente cristallizzata in montagne di ghiaccio d’ammoniaca e metano. Insieme, i due uomini la percorsero in lungo e in largo sulla slitta corazzata di Huw, bagnati da una spettrale luce solare che illuminava intere distese di ghiaccio color fango, sotto l’onnipresente occhio di Giove. Il grande pianeta, che pròduceva incessantemente energia primordiale, vomitava su di loro furiose tempeste di protoni, ma i campi magnetici delle loro tute spaziali smorzavano senza fatica quell’assalto. Poteva qualunque forma di vita svilupparsi, crescere, riprodursi sotto quel bombardamento? In teoria sì; tuttavia, loro non ne trovarono traccia, come del resto accadde su Callisto. Non un microbo, non la più pallida traccia di qualcosa di vivo. Nulla.