Aveva trascorso gli ultimi tre giorni a riconfigurare la navetta automatizzata in dotazione alla Wotan, adattandola anche alla guida manuale. A differenza della sonda già inviata sul pianeta A, di cui esisteva una versione identica rimasta a bordo, la navetta era abbastanza spaziosa da trasportare un equipaggio di tre o quattro persone, ed era concepita esattamente per delle missioni esplorative come quella che si accingevano a eseguire. Il programma base prevedeva delle brevi ricognizioni sotto lo stretto controllo del computer di bordo dell’astronave madre, ma questo non bastava a Huw che voleva pilotarla di persona sia nella fase di avvicinamento al pianeta che nella fase di ricognizione vera e propria. Infine, dopo tre giorni di programmazione, simulazione e controlli, diede il suo benestare all’inizio della missione.
La composizione della squadra però aveva subito un cambiamento rispetto a tre giorni prima. Durante una sorta di festino celebrativo nelle terme a cui partecipavano Paco, Heinz, Natasha, Innelda e due o tre altri, Innelda era scivolata malamente (secondo la sua versione a causa di una mano indiscreta sulle natiche), procurandosi una brutta slogatura a una caviglia. Di conseguenza, Leon le aveva prescritto una settimana di assoluto riposo; Innelda non si sognava neppure di restare ferma a letto, ma dato che doveva spostarsi con le stampelle e Huw non aveva intenzione di rimandare l’atterraggio, sembrò opportuno a tutti sostituirla con qualcun altro. E così, con l’avallo del comandante, Innelda venne sostituita da Marcus, la cui esperienza di planetografo equivaleva sotto molti aspetti a quella di Innelda. Innelda reagì con rabbia alla sostituzione, ma le sue proteste caddero nel vuoto.
Non molto tempo dopo, avrebbe scoperto che l’autore di quel tiro mancino (probabilmente Paco, anche se nessuno lo accusò apertamente) le aveva fatto il più grande favore della sua vita. Ma quelle cose appaiono chiare solo dopo, quando ormai tutto è successo.
Le figure quasi aliene in tuta spaziale di Huw, Giovanna e Marcus diedero vita a una piccola, gloriosa processione quando marciarono, attraverso le viscere dell’astronave, dirette all’hangar in cui si trovava la navetta. L’intero equipaggio si radunò per vederli, tutti tranne Noelle, stremata da un contatto alquanto faticoso occorso quella mattina con sua sorella, e addormentatasi nella sua cabina, e l’adiratissima Innelda, che aveva scelto di rinchiudersi nella propria cabina in segno di protesta, rimuginando sul suo destino come un furioso Achille. Huw apriva la processione, salutando maestosamente a destra e a manca come il suo glorioso antenato in partenza per il Nuovo Mondo. Sicuramente, quel giorno il suo sangue celtico ribolliva d’orgoglio. Cos’erano mai quelle piccole escursioni su Venere, Ganimede, Callisto in confronto a tutto ciò?
Lui, Giovanna e Marcus si sistemarono nei comodi sedili della navetta. Il portello si chiuse. La pressurizzazione cominciò, il grande portello della Wotan si aprì e la navetta scivolò fuori silenziosamente, separata dalla nave madre, emergendo nello spazio aperto.
Una leggera accensione dei razzi, un rapido tocco della mano guantata di Huw su un tasto del quadro comandi, e la navetta si allontanò definitivamente dalla Wotan, puntando verso il pianeta A. Presto la grande massa azzurra, marrone e verde del pianeta fu l’unica cosa che i tre esploratori poterono vedere nell’oblò di fronte alle poltrone di accelerazione. Le dimensioni del pianeta crebbero in modo incredibilmente veloce a mano a mano che si avvicinavano: era un pianeta grande come la Terra, ma ai loro occhi appariva come una specie di Giove. Un anno trascorso nell’isolamento del non-spazio aveva dato loro l’impressione che la Wotan fòsse il solo oggetto concreto dell’universo; ora ce n’era un altro.
Nonostante Huw fosse definitivamente il responsabile e potesse assumere in ogni momento il controllo della navetta, il compito insidioso di calcolare la traiettoria migliore per l’ingresso nell’atmosfera venne svolto dal sistema di guida intelligente della Wotan. Una semplice questione di opportunità: simili calcoli erano la specialità di quei sistemi, e le loro reazioni ai possibili errori erano mille volte più veloci delle reazioni di Huw. E così, il gallese si limitò a guardare, annuendo con approvazione a mano a mano che la manovra di avvicinamento si compiva. Il punto stabilito per l’atterraggio si trovava sul più invitante dei quattro continenti del pianeta, a pochi chilometri da una costa sabbiosa. Quel continente sembrava offrire il clima più temperato, meno caldo degli altri, in ogni caso, e probabilmente bagnato di quando in quando da qualche pioggia. L’intenzione era quella di esplorare a piedi il territorio compreso tra il punto di atterraggio e la costa, con un dettagliato esame delle acque dell’oceano per verificare se ospitassero qualche tipo di forma di vita marina.
Ormai si trovavano a poche centinaia di chilometri dalla superficie. Nonostante le aspettative, il territorio sotto di loro appariva desolato e inospitale. Spelacchiate distese giallo-marrone punteggiate di arbusti senza foglie strani e contorti, basse formazioni rocciose modellate dal vento: in ogni caso, nulla di interessante dal punto di vista geologico. Molto lontano, a est, si intravedeva il profilo di basse colline, o forse di un altipiano. Certo che il pianeta A non aveva molto da offrire in fatto di montagne, pensò Huw. Era un paesaggio noioso e vagamente moribondo, eroso, appiattito, in cui probabilmente nulla era accaduto da milioni e milioni di anni.
Tutto sommato non si trattava di un posto molto promettente per fondarvi la prima colonia della Nuova Terra. Ma ormai erano scesi, e avrebbero guardato quello che c’era da vedere.
— Manovra di atterraggio — riferì Huw al comandante che seguiva ogni cosa nella sala comandi della Wotan, ventimila chilometri sopra di loro, mentre la navetta percorreva gli ultimi chilometri perfettamente guidata e assistita. Stavano per atterrare giusto al centro di una grande formazione rocciosa a forma di ciotola, forse un antico cratere creato da una poderosa collisione cosmica, posta in una vasta pianura semidesertica.
L’ambiente, osservò Huw, non sembrava affatto di tipo terrestre, visto da distanza ravvicinata. Il cielo aveva una vaga sfumatura verdastra. La posizione del sole non appariva per nulla corretta, spostata com’era di diversi gradi rispetto all’orizzonte. Guardarlo dava onestamente fastidio. Le sole cose vive nei dintorni erano degli arbusti dalle cime gialle che crescevano qua e là sulla cima della conca in cui si trovava la navetta. Avevano uno strano tronco centrale nero come la pece, che saliva spiraleggiando come un cavatappi e da cui si protendevano degli stentati ramoscelli. Piante di un altro mondo, nulla da dire. Persino il modo in cui crescevano era strano, dato che formavano degli anelli ellittici lunghi e stretti, composti forse da un centinaio di arbusti. Inoltre, ogni anello appariva ben distanziato dagli anelli vicini, come se si trattasse dei confini di qualche impossibile giardino. Ma quello era un deserto, su un pianeta apparentemente disabitato, e quella strana figura geometricamente perfetta non poteva certo essere un giardino. Tuttavia c’era qualcosa di sbagliato anche in quegli assurdi anelli vegetali.
Le formazioni rocciose attorno a loro, nere e spiraleggianti piramidi dai bordi frastagliati, ispiravano lo stesso indefinito “disagio”. Ma forse era perché annunciavano, a livello sottilmente palese, che avevano subito dei processi di formazione e di erosione ben diversi dalle rocce terrestri.
Secondo quanto stabilito, Huw sarebbe stato il primo a uscire dalla navetta. Era lui l’esploratore planetario e il comandante della spedizione: quello era il suo spettacolo, dal primo all’ultimo momento. E lui era assolutamente ansioso di uscire, di scendere la scaletta e di porre piede su quel pianeta sconosciuto, pronunciando le parole che le circostanze imponevano al primo visitatore terrestre di un pianeta di un’altra stella. Tuttavia Huw era un esploratore troppo esperto per precipitarsi fuori alla cieca, nonostante la gran voglia di farlo che provava in quel momento. Prima bisognava controllare ogni dettaglio dell’atterraggio, determinare e registrare la loro posizione, rilevare la temperatura esterna, scandagliare il fondo della conca per accertarsi che la navetta non si trovasse in una posizione instabile e non s’inclinasse su un lato nel momento stesso in cui scendevano, e così via. Tutto quel lavoro richiese circa un’ora.