Avevano quasi finito e si apprestavano a scendere quando Huw constatò, con qualche sorpresa, di sentirsi molto strano.
Strano, già. Profondamente a disagio. Nauseato. Persino un po’ spaventato.
Si trattava di sensazioni assolutamente insolite per lui. Huw era un uomo robusto e sanguigno, e sensazioni quali lo sgomento, l’apprensione, l’inquietudine e la paura gli risultavano del tutto estranee. Era prudente e circospetto, qualità apprezzabili in un uomo che dedicava con il massimo piacere la propria vita all’esplorazione di ambienti alieni spesso pericolosi, ma la tendenza all’ansietà non faceva certo parte del suo carattere.
Tuttavia quella che provava adesso non poteva essere altro che ansietà. Ne era certo, perché ne avvertiva gli inequivocabili sintomi: un’insolita stretta allo stomaco, un nodo alla gola che rendeva difficile deglutire, insomma tutti i sintomi comunemente descritti come sintomi di ansietà. E l’ansietà era una parente stretta della paura. Fino a quel momento non aveva mai provato nulla di simile, ma d’altro canto non poteva dire di aver mai provato la minima paura.
Ma che strano, si disse. Quel posto era infinitamente meno minaccioso di Venere, dove la temperatura più gradevole lo avrebbe cotto al forno nel giro di minuti e una singola boccata d’aria sarebbe bastata a corrodergli i polmoni in modo irrimediabile, e tuttavia Venere non gli aveva ispirato neppure l’ombra di quelle sensazioni. Perché su Venere al massimo poteva morire, e lui era convinto che quel tipo di morte non fosse ciò che il destino aveva in serbo per lui. E, comunque, aveva accettato ormai da tempo la morte come una possibile conseguenza di qualche errore nel suo lavoro. Nessun timore lo aveva dunque sfiorato anche durante l’esplorazione di Mercurio, di Ganimede, della ruggente, vulcanica Io e di tutti gli ostili ma affascinanti pianeti e satelliti del sistema solare. E allora perché quella sensazione di… di terrore lo inchiodava al suo posto, nonostante indossasse una tuta spaziale del modello più avanzato e si trovasse nel sicuro ambiente pressurizzato di un’elegante, robusta navetta spaziale?
Ormai era quasi giunto il momento di uscire, Huw lanciò un’occhiata a Giovanna, rannicchiata nella poltroncina antiaccelerazione alla sua destra, e a Marcus, tremante alla sua sinistra. Poteva vedere solo i loro volti, e nessuno dei due sembrava particolarmente felice. Marcus tremava, certo, ma dopotutto era un tipo emotivo e… be’, tremava sempre. Ma anche l’espressione di Giovanna tradiva una profonda apprensione. Tuttavia, si disse Huw, poteva anche trattarsi di concentrazione: probabilmente Giovanna stava pensando agli esperimenti che intendeva eseguire in superficie.
La fastidiosa sensazione di ansia, comunque, parve addirittura aumentare, lasciandolo sempre più perplesso. Era forse una goccia di sudore quella che gli colava lungo la punta del naso? Sì, accidenti, era proprio sudore; e un’altra stava solleticandogli la fronte. Sembrava proprio che si fosse messo a sudare, anzi, cominciava a sentirsi davvero uno straccio.
Ho mangiato qualcosa che non andava, si disse; ho sempre digerito anche i sassi, ma in effetti c’era sempre l’eccezione che confermava la regola, vero?
— Bene — disse a Giovanna, a Marcus e all’equipaggio a bordo della Wotan che li seguiva. — È arrivato il momento di uscire e di prendere possesso di questo pianeta in nome di Henry Tudor.
Pronunciò quelle parole con voce squillante e poco seria, ma quel piccolo scherzo non provocò alcuna ilarità tra i suoi compagni. Quella faccenda non gli piaceva affatto. E poi, che strano: doveva sforzarsi per risultare allegro! Senza dire altro, controllò per l’ultima volta la tuta spaziale e cominciò a impostare i comandi per l’apertura del portello.
— Adesso uscirò — annunciò. — Voi restate dentro fino a quando non ve lo dirò io, intesi? Accertiamoci che tutto vada bene, prima di rischiare ulteriormente. Al mio segnale, Giovanna mi raggiungerà. Controlleremo di nuovo che tutto vada bene e poi scenderà anche Marcus. D’accordo?
Entrambi risposero affermativamente.
Il portello si aprì. Huw si abbassò per uscire, attese un attimo e poi scese la scaletta con passi lenti e misurati, cercando di ricordare quei celebri versi sull’intrepido Cortez immobile e silente su quel picco di Darien: “ed ecco, osserva i cieli…” era così? “quando un nuovo pianeta muove alla tua vista”.
Il suo piede sinistro toccò il suolo del pianeta A.
— Per tutti i diavoli dell’inferno! — esclamò Huw, una lacerante e anacronistica imprecazione che fece sobbalzare non solo i suoi due compagni sulla navetta, ma l’intero equipaggio della Wotan. Quelle furono le prime parole pronunciate dall’uomo sul primo pianeta di tipo terrestre mai scoperto nella galassia.
— Huw, stai bene? — domandò Giovanna da dentro la navetta, e un attimo più tardi Huw udì la voce del comandante provenire dalla Wotan e chiedergli la stessa cosa. Doveva aver cacciato un urlo terribile, pensò.
— Sì, sto bene — rispose lui, cercando di non apparire troppo scosso. — Mi sono leggermente slogato una caviglia quando ho messo il piede a terra, ecco tutto.
Dopodiché completò la discesa e si allontanò dalla navetta.
Aveva mentito riguardo alla caviglia e riguardo al sentirsi bene. Si sentiva veramente uno straccio, in realtà.
Metter piede su quel pianeta era stato come metter piede nelle fauci dell’inferno.
Il disagio, l’ansia, qualunque cosa fosse che provava pochi minuti prima a bordo della navetta non era nulla in confronto. L’intensità delle sensazioni negative era cresciuta in modo esponenziale, e ciò si era verificato nel momento stesso in cui il suo piede aveva toccato il suolo. Era l’equivalente psichico di trovarsi a piedi nudi su una griglia metallica incandescente. E l’ansia stava già lasciando il posto a qualcosa di molto peggio, qualcosa ai limiti del terrore, del panico cieco.
Quelle sensazioni gli risultavano completamente nuove. La scoperta di poter provare paura come tutti e di trovarsi sul punto di perdere il controllo alimentò il suo terrore.
Anche il fatto di non sapere che cosa lo spaventasse tanto contribuiva a fargli perdere il controllo. La paura era “semplicemente” là, un fatto esistenziale legato allo sbarco su quel pianeta, una cosa concreta come le sue mani o come la tuta spaziale che lo avvolgeva. Sembrava uscire ribollendo dal suolo e afferrare la sua anima passando dai piedi, per poi risalire attraverso i polpacci, gli stinchi, le cosce, l’inguine, l’intestino.
“Ma che diavolo, che diavolo, che diavolo…”
Huw sapeva di dover riprendere il controllo di sé. L’ultima cosa che voleva era far sospettare a qualcuno degli altri ciò che gli passava per la testa. Ma, dopotutto, calpestava quel suolo alieno da forse un minuto, e l’unico segno che poteva tradire il suo stato d’animo era stato il grido iniziale, peraltro giustificato alla perfezione. No, non c’era nulla di cui preoccuparsi.
Piano piano, la forza d’animo guadagnata in mille e mille sfide agli ambienti più ostili prese il sopravvento. No, questo non poteva succedere davvero, si disse, perché lui non era tipo da cedere così senza motivo. La sensazione iniziale di terrore provata calpestando il suolo di quel pianeta lasciò spazio a un disagio costante ma controllabile: probabilmente stava abituandosi all’effetto. Non gli piaceva, no non gli piaceva affatto, ma forse stava imparando come convivere con la paura. Forse.