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Si allontanò di cinque o sei passi dalla navetta, poi si fermò e inspirò profondamente, ancora e ancora. Raddrizzò le spalle e si diede tutto il contegno possibile in quella situazione. Con uno sforzo sospinse le onde di terrore verso il basso, giù per il suo corpo millimetro dopo millimetro, giù nelle gambe, nelle caviglie, nei piedi.

Ma la paura era là.

Non voleva arrendersi, e cercava di risalire fino al cuore per poi stringerlo alla gola e prendergli la mente. Ma lui l’aveva in pugno, dannazione, qualsiasi cosa fosse lui l’aveva in pugno. Più o meno. La sua presenza lo frustrava, ma lui non voleva mollare, anche a costo di un considerevole spreco di energie mentali e morali. Tuttavia doveva lottare continuamente per respingere il profondo desiderio di urlare, di piangere, di agitare selvaggiamente le braccia. Ma era una battaglia che sembrava poter vincere, e difatti respinse facilmente un ultimo assalto di nauseante disagio e si dedicò al compito di dare un’occhiata ai dintorni.

Un lieve gemito sulla sinistra richiamò la sua attenzione. Uno degli altri era uscito dalla navetta senza attendere il suo segnale, e probabilmente il gemito era la reazione all’effetto da griglia incandescente che sembrava assalire chiunque posasse piede per la prima volta sul suolo di quel pianeta.

— “Ehi!” — gridò. — Non vi ho forse ordinato di restare dentro fino al mio segnale?

Era Marcus, realizzò Huw, il che peggiorava ancora le cose: secondo i suoi ordini, Giovanna doveva essere la seconda a uscire dalla navetta. Invece Marcus era sceso di sua iniziativa e, muovendosi in modo stranamente confuso e disorientato, descriveva una serie di cerchi irregolari alla base della scaletta, trascinando i piedi per terra e sollevando piccole nuvole di polvere.

— Huw, sto per uscire anch’io — annunciò Giovanna in quel momento. — Non mi sento molto bene qui dentro da sola.

— No, aspetta… — replicò Huw, ma ormai era troppo tardi. Giovanna si era già affacciata al portello, e un attimo più tardi prese a scendere frettolosamente la scaletta. La voce del comandante risuonò nell’elmetto di Huw, chiedendogli presumibilmente cosa stesse succedendo, ma in quel momento Huw non aveva tempo di rispondere. Doveva lottare continuamente contro le ondate di inspiegabile terrore che sembravano salire pulsando dal suolo verso la sua mente, tenendo al contempo sotto controllo l’equipaggio. Con uno sforzo, mosse verso Marcus, che intanto aveva smesso di gironzolare attorno alla scaletta per lanciarsi in una sorta di zigzagante, confusa corsa verso un punto indefinito all’orizzonte.

— Marcus! — chiamò seccamente Huw. — Fermo dove sei, Marcus! È un ordine!

Barcollando, Marcus si fermò. Ma dopo alcuni secondi cominciò nuovamente a correre, descrivendo una sorta di ampia traiettoria ricurva che in breve lo allontanò ulteriormente dal modulo di atterraggio.

Giovanna era scesa dalla navetta, ormai. Correndo goffamente nella gravità ridotta si affiancò a Huw, che la guardò vagamente disperato attraverso il cristallo dell’elmetto. La fronte di Giovanna era madida di sudore, e i suoi occhi tradivano un terrore incontrollabile. Nel frattempo, Marcus continuava ad allontanarsi.

— Non so — disse Giovanna, come rispondendo a una domanda che Huw non aveva fatto. — Mi sento strana, Huw.

— Strana come? — le chiese lui, cercando in tutti i modi di parlare con voce normale.

— Ho paura. Ho paura. Aiutami, Huw! — La vergogna le attraversò lo sguardo come un lampo. — È come se stessi vivendo una sorta di incubo, ma sono sveglia. Vero che sono sveglia, Huw?

— Certo che sei sveglia — replicò lui. E così Huw non era il solo a provare quella strana sensazione. Interessante, molto interessante. E stranamente rassicurante, dopotutto, perlomeno per quanto lo riguardava. Tuttavia si trattava di cattive notizie per la spedizione. Huw afferrò Giovanna per il polso con la mano guantata. — Cerca di mantenere il controllo e vieni con me. Dobbiamo riprendere Marcus prima che sia troppo tardi.

Marcus si trovava ormai a circa trenta metri di distanza. Stringendo ancora il polso di Giovanna, perché non era certo di quanto lei avesse realmente il controllo di se stessa e perché voleva mantenere unito il gruppo, Huw si mise a correre sul terreno piatto e polveroso, trascinando Giovanna con sé. Dopo un attimo lei prese il ritmo del suo passo, adattandosi alla gravità ridotta e alla conformazione del terreno, e i due avanzarono verso Marcus con più coordinazione, intenzionati a fermarlo. Ci volle qualche minuto prima di raggiungerlo. Quando si trovarono abbastanza vicini, Marcus si fermò all’improvviso, voltandosi verso di loro come una volpe in trappola, per poi avvicinarsi con entrambe le mani tese, completamente disperato.

— Oh, Gesù, Gesù — prese a mormorare Marcus con una sorta di lamento singhiozzante. Invocava quel nome arcaico, un nome quasi privo di significato per lui e per i suoi compagni, ma sempre in grado di portare qualche conforto. — Ho tanta paura, Huw.

— Lo so, ragazzo, lo so — replicò Huw, prendendo la sua mano tesa e facendo cenno a Giovanna di prendere l’altra. I tre esploratori restarono così, con le mani unite come dei bambini, lanciandosi occhiate stordite e attonite, mentre dalla Wotan il comandante tempestava Huw di domande a cui nessuno poteva ancora rispondere. Intanto il suono dei burrascosi singhiozzi di Marcus riempiva i caschi dei suoi due compagni. Huw notò che Giovanna aveva a sua volta il volto livido dalla paura, anche se dava mostra di miglior autocontrollo.

Approfittando dell’attimo di calma, Huw controllò il suo stato d’animo. La tempesta interiore non sembrava affatto sopita. Se si concentrava sui suoi compiti di comandante, cercando di mantenere tutti uniti e di capire cosa stava accadendo, il panico sembrava controllabile; ma, non appena si fermava, ecco che quelle ribollenti ondate di terrore minacciavano nuovamente di travolgerlo.

Restare vicino ai suoi due compagni lo aiutava, comunque. Tutti e tre ormai avevano capito che quel disturbo agiva a livello generale, colpendoli allo stesso modo. Tuttavia, tenersi per mano e guardarsi negli occhi creava una sorta di catena protettiva che forniva loro maggiore forza rassicurante per cercare di resistere ai travolgenti impulsi di immotivata paura che continuavano ad assalirli senza sosta.

— Com’è per lei, Marcus? — chiese Huw.

Terrorizzato al punto da non riuscire più ad articolare parola, Marcus rispose con un breve, inquietante gemito che si perse nel silenzio. Giovanna, però, era in condizioni migliori: — È come se tutti gli incubi della mia infanzia si fossero uniti in un unico, grande orrore. Come la somma delle paure che non vogliono arrendersi alla ragione: occhi che ti fissano dalle pareti, insetti schifosi con grandi pinze che schizzano fuori dagli armadi, serpenti ai piedi del mio letto…

— Hai cominciato a sentirlo dentro la navetta?

— Sì, non appena siamo atterrati. Ma qui fuori è molto peggio, quasi insopportabile. Anche tu provi le stesse cose?

— Sì — replicò Huw con tono distaccato. — Provo le stesse cose.

Le stesse cose, già. Denti stretti, doloranti, sempre più grandi fino a dare l’impressione di riempire la bocca. Una pulsazione all’inguine, una pulsazione dolorosa. Blocchi frastagliati di ghiaccio che si muovevano nello stomaco. E l’onnipresente pulsare della paura. Paura. Paura. Come un’implacabile scarica nervosa in grado di attivare le sinapsi del terrore, quelle che non aveva mai scoperto di possedere.

Nessuna meraviglia che quel pianeta non presentasse traccia di forme di vita evolute. L’evoluzione animale doveva affrontare una sfida continua, da quelle parti. Qualsiasi sistema nervoso abbastanza complesso da consentire il funzionamento dei vari processi omeostatici di una forma di vita superiore non avrebbe mai potuto superare l’ostacolo posto da quei costanti impulsi di cieco terrore. Nessun sistema nervoso più complesso di quello dei vermi e degli insetti avrebbe potuto resistere a lungo.