— Cosa credi che sia? — chiese Giovanna. — E cosa facciamo adesso?
— Non lo so. Non lo so — fu la risposta di Huw.
Poi, mettendosi finalmente in contatto con la Wotan, Huw riferì: — Abbiamo un grosso problema, quaggiù. Da quando siamo usciti dalla navetta siamo stati assaliti da strane sensazioni di terrore che ci stanno portando dritti verso la pazzia. Non esiste motivo apparente per questa situazione. Si limita ad accadere. Tutto è iniziato al momento dell’atterraggio. È come se questo pianeta fosse…
Marcus emise all’improvviso un lungo, terrificante urlo.
— …in qualche modo maledetto — concluse Huw.
In quel momento, Marcus si liberò della loro stretta e afferrò il casco con entrambe le mani. Prima che Huw potesse fare qualcosa, Marcus si tolse il casco e prese a respirare a pieni polmoni l’aria non filtrata di quel pianeta infernale. Era il primo essere umano a fare una cosa così. Huw lo guardò impotente, mentre Marcus si piegava in avanti, vittima del più violento attacco di nausea che Huw avesse mai visto. Un attimo dopo, Marcus cadde in ginocchio tremando come una foglia, per poi stringersi lo stomaco e vomitare getti su getti di liquido sottile, con una violenza e un’intensità che lasciò allibiti i suoi due compagni.
Marcus non costituiva certo una bella visione mentre si liberava lo stomaco, ma perlomeno stava effettuando un’utile prova sull’effetto dell’atmosfera del pianeta A sui polmoni umani, un esperimento che avrebbero dovuto compiere, prima o poi, nel corso dell’esplorazione. E l’effetto era nullo, almeno per il momento, il che significava che Marcus non dava mostra di soffrire alcun danno respirando quell’aria. Tuttavia, visto il suo stato di completa e disperata confusione psichica, era probabile che non si sarebbe neppure accorto di qualche vago problema fisico, tipo un leggero effetto corrosivo sui suoi polmoni.
Finalmente Marcus si rialzò. Appariva stordito e frastornato, ma decisamente più calmo di prima, come se quella selvaggia eruzione dal profondo del suo stomaco fosse servila a tranquillizzarlo.
— Allora? — disse Huw, forse troppo rudemente. — Si sente meglio adesso?
Marcus non rispose.
— Ci dica almeno com’è questa atmosfera! Come si sta senza casco?
Marcus lo guardò con occhi vitrei. Dopo un attimo le sue labbra si mossero, ma evidentemente il centro della parola era andato a massa. — Io… io… — balbettò.
Andava male. Marcus poteva essere tutto meno che tranquillo.
Huw, stranamente, si accorse di essersi quasi abituato a quel panico inspiegabile. Non gli piaceva, anzi lo odiava, ma ormai aveva capito che non era dovuto a qualche timore recondito del suo subconscio, quanto a un effetto endemico di quel miserabile pianeta, e quindi trovava maggior forza per cercare di ingabbiarlo, negando ai suoi effetti peggiori la possibilità di crescere. Il suo corpo continuava a tremare, certo, e dita gelide e scheletriche sembravano stringere e torcere la sua spina dorsale, mentre strani movimenti intestinali minacciavano di rivoltarlo sottosopra come Marcus. Ma c’era un sacco di lavoro da fare, prove da effettuare, ricognizioni da svolgere. Huw si concentrò su quell’aspetto, traendone un notevole beneficio.
Parlando sia ai compagni in ascolto a bordo della Wotan che a Giovanna e all’infelice Marcus, Huw disse: — Ci sono diverse possibilità di spiegazione. La prima è che questo pianeta sia già abitato da forme evolute di vita, che non riusciamo a vedere e che stanno irradiando qualche sorta di raggio mentale su di noi. Certo è un’ipotesi ai limiti dell’assurdo, ma a questo punto non possiamo scartarla a priori. Un’altra è che il pianeta stesso emetta qualche sorta di irradiazione psichica, una specie di radioattività mentale. Anche questa però suona altamente improbabile, lo ammetto. Tuttavia, per quanto assurde queste due ipotesi possano sembrare, sono, secondo me, meno assurde della terza ipotesi che mi viene alla mente, e cioè che la razza umana soffra di qualche sorta di sindrome che la lega al suo sistema solare e che provoca in noi una specie di cieco terrore non appena poniamo piede su un pianeta abitabile che non sia la Terra. Una specie di maledizione, se vogliamo, una maledizione che abbiamo acquisito nel corso del nostro processo evolutivo e che ci impedisce, Dio voglia che mi sbagli, di stabilirci su un altro pianeta. E quindi… Marcus! Marcus, accidenti, torni indietro!
Marcus era fuggito proprio mentre Huw era preso dalle sue ipotesi, e si era lanciato in avanti senza esitare, senza barcollare, semplicemente mettendosi a correre a gambe levate verso le aspre e bruciate pareti del cratere in cui erano atterrati.
— Merda! — esclamò Huw, lanciandosi dietro di lui.
Ma ormai Marcus stava salendo la scoscesa pendenza che delimitava il bordo del cratere. Con attonita sorpresa, Huw vide che tendeva a evitare le macchie ellittiche di arbusti dalle cime gialle, descrivendo una sorta di otto per passare da una macchia all’altra, sempre correndo, senza voltarsi né fermarsi, puntando dritto verso la cima ormai poco distante. Huw moltiplicò i suoi sforzi per riuscire a raggiungerlo. Marcus era giovane, snello e allenato; Huw aveva quindici anni più di lui ed era di costituzione radicalmente opposta, muscoloso, robusto e poco agile. Inutile dire che non aveva mai amato la corsa. Inoltre correre sembrava acuire le qualità sgradevoli di quel posto: ogni volta che metteva piede a terra, Huw avvertiva una sorta di scossa elettrica salirgli lungo la gamba e prendere la strada più diretta per il suo cervello. In vita sua non aveva mai immaginato una simile lacerazione dello spirito. La tentazione di mollare tutto e buttarsi a terra in posizione fetale, piangendo come un bambino, divenne insostenibile.
Ma Huw strinse i denti e continuò a correre. Sapeva di dover prendere Marcus, ormai fuori controllo, e di doverlo riportare alla navetta prima che si facesse male seriamente correndo come un pazzo in quel deserto.
Marcus, però, continuò a correre come se volesse attraversare mezzo continente prima di fermarsi a riprendere fiato, e Huw si ritrovò presto esausto e stordito, con un forte dolore al fianco e la gamba sinistra sempre più rigida. E il livello della paura aveva cominciato di nuovo a crescere, tornando intenso come al momento dello sbarco. Facendo uno sforzo, poteva continuare a correre oppure combattere la demoniaca radiazione psichica di quel pianeta, ma sembrava impossibile fare entrambe le cose nello stesso momento.
Annaspando raucamente, salì ancora un poco fino a metà del pendio, poi barcollò e dovette fermarsi. Per la prima volta nella sua vita adulta si sentì sul punto di scoppiare in lacrime. Marcus, intanto, giunse in cima e sparì oltre il limite del cratere, perdendosi oltre la nera corona di grandi rocce acuminate dall’aspetto vagamente lunare che cingeva il margine superiore della conca.
Huw barcollava sempre più, e probabilmente sarebbe caduto se Giovanna non fosse giunta al suo fianco pochi attimi più tardi.
— Hai visto da che parte è andato? — gli chiese subito.
Compiendo un ulteriore, faticoso sforzo Huw trovò abbastanza fiato per rispondere. — Da qualche parte lassù — disse, indicando un gruppo roccioso che li sovrastava. — Si è infilato là dentro, in quella specie di labirinto.
Giovanna annuì. — Come stai?
— Bene, credo. Fammi solo riprendere fiato, poi andremo a cercarlo.
Un attimo più tardi, i due salirono il resto del pendio tenendosi per mano. Di nuovo, il contatto fisico si rivelò benefico, nonostante le tute spaziali. Ormai Huw tendeva a frenare il passo: il battito scomposto del suo cuore suggeriva chiaramente di procedere a un’andatura più moderata, anche perché il pendio si stava rivelando più ripido di quanto non apparisse da sotto. Anche il terreno non era poi così uniforme, anzi: più procedevano e più si faceva irregolare, zeppo com’era di sottili e robusti rampicanti, buche e un numero incredibile di sassi acuminati proprio nei punti dove uno avrebbe appoggiato volentieri il piede.