Finalmente arrivarono in cima. A poca distanza, il terreno scendeva ripidamente per qualche decina di metri, confluendo in una vasta pianura segnata dalle figure ellittiche formate dagli strani arbusti neri e gialli. La loro strana disposizione spiccava ancora di più vista dall’alto: era geometricamente perfetta, e la distanza tra gli ellissoidi appariva sorprendentemente regolare. Rari alberi, alti, neri, spogli e decisamente brutti, rompevano la monotonia del paesaggio. In lontananza, la pianura si perdeva nella foschia dell’orizzonte. Nulla indicava la prossimità del mare, sempreché non avessero clamorosamente sbagliato i calcoli.
Sulle prime non videro alcun segno di Marcus.
Poi Giovanna emise un grido soffocato e indicò un punto non distante. Huw si concentrò sul punto indicato e annuì. Sì, era Marcus. Ma cosa stava facendo?
Marcus giaceva ai piedi della discesa, a circa cento metri da loro, con la faccia in giù e le braccia strette attorno a un masso vagamente squadrato e rettangolare, come se stesse abbracciandolo. Huw notò l’insolito angolo che la testa di Marcus aveva rispetto alle spalle. Si disse che non doveva essere successo nulla di buono, e quindi si affrettò a raggiungerlo con tutta la rapidità consentitagli dalla gamba irrigidita. Via via che si avvicinava, sentiva montargli dentro un’ansia molto diversa da quella con cui quel dannato pianeta riempiva le loro menti ormai da qualche ora.
Finalmente raggiunsero Marcus, che non stava abbracciando il masso come sembrava dall’alto: più semplicemente, vi era caduto sopra con le braccia allungate. Huw s’inginocchiò accanto a lui. La sua guancia era premuta innaturalmente sulla superficie rocciosa e un grosso taglio, o meglio una frattura, correva dall’alto in basso lungo tutta la fronte. Un rivolo di sangue usciva dalle labbra socchiuse e dal naso; gli occhi erano aperti, ma troppo vitrei. Non respirava. A giudicare dalla sua posizione, pensò Huw, doveva essersi rotto l’osso del collo cadendo.
Huw dovette pensare qualche istante per ricordare l’ultima volta che aveva visto un cadavere. Sicuramente erano passati vent’anni, forse trenta. La morte non rappresentava un evento comune nell’epoca di Huw, soprattutto la morte all’età di Marcus. Di quando in quando accadevano incidenti mortali, certo, ma in genere la morte veniva considerata un evento impossibile per coloro che avevano meno di cento, centocinquant’anni. Ecco perché la morte stupida e priva di senso di quel giovane uomo su quello squallido pianeta alieno colpì Huw con grande forza. Al di là di tutte le sensazioni da incubo provate sul pianeta A dal momento dell’atterraggio in poi, Huw avvertì, per motivi totalmente diversi, un caldo turbinio di shock, dolore e sconforto attraversare da capo a piedi la sua anima. Per un attimo le ginocchia gli mancarono, obbligandolo a sedersi per combattere l’improvvisa debolezza. Quel pianeta gli stava insegnando cose che non avrebbe mai voluto imparare: prima di tutto i limiti della sua resistenza, che un tempo considerava illimitata.
— Cosa facciamo, Huw? — domandò Giovanna. — Cosa possiamo fare? C’è qualcosa nell’infermeria della navetta che…
Huw rise. Fu una risata tanto rude e inaspettata che lei mosse un passo indietro e Huw fu sul punto di scusarsi. Tuttavia non lo fece. — L’unica cosa che possiamo fare adesso — rispose piano — è raccogliere il povero Marcus e riportarlo alla navetta. Altrimenti possiamo seppellirlo qui e segnare il posto con una lapide. Sarebbe la cosa più pratica da fare, ma non possiamo… non possiamo. No. Non senza autorizzazione. L’unica cosa che non possiamo fare, Giovanna, è riportarlo in vita.
In quel momento risuonò nei loro caschi la voce del comandante, che voleva sapere di Marcus.
— Marcus è morto, comandante — replicò Huw cupamente. Si sentiva furioso con se stesso, anche se sapeva di non avere alcuna colpa per l’accaduto. — C’è qualcosa su questo pianeta che ti spinge alla follia. Marcus non è riuscito a contrastarla, ha perso il controllo e si è messo a correre, allontanandosi dalla navetta, su per la collina e giù dall’altra parte, fino a quando non è caduto di testa contro una roccia, rompendosi il collo come un idiota.
Dall’altra parte silenzio assoluto.
— Huw — riprese il comandante. — È certo che non sia sotto shock, o che non sia svenuto?
— Le ho detto che è morto, comandante.
— Leon, qui accanto a me, vorrebbe parlarle per un attimo.
— E perché? — ribatté selvaggiamente Huw. — Non posso resuscitarlo con la respirazione bocca a bocca. Marcus ha una frattura al cranio e il collo rotto, dannazione! È morto e basta! Io non posso fare nulla, Leon non può fare nulla… nemmeno Gesù Cristo in persona potrebbe farci qualcosa! Credetemi!
Di nuovo Gesù Cristo, rifletté Huw. Gli antichi miti riaffioravano. Pareva proprio che qualcosa su quel pianeta li spingesse a invocare un aiuto divino. — E nemmeno Zeus, se è per quello… — commentò amaramente, furioso con se stesso, con il comandante, con l’intero universo.
Di nuovo, il comandante fu lento a rispondere.
— Secondo me questo pianeta è assolutamente inabitabile — riprese Huw per riempire in qualche modo il silenzio intollerabile della Wotan. — È solo un’opinione personale, ma sembra decisamente plausibile. C’è qualcosa di molto strano qui, qualche sorta di campo psichico che comincia ad agire non appena metti piede sul pianeta e non ti lascia più. Uno cerca di fare ciò che può, ma si sente sempre peggio ogni minuto che passa. Qualche attacco è peggiore di altri, ma comunque uno non si sente mai bene. Capisce ciò che intendo, comandante?
— Abbiamo seguito ogni parola delle vostre conversazioni a terra. Comprendiamo il vostro stato d’animo.
— No, non lo comprendete affatto. Siete solo convinti di comprenderlo. Cosa devo fare con Marcus? Seppellirlo qui?
— No. Riportatelo a bordo.
— Pensate che non sia morto davvero?
— Penso che recuperare di lui quello che è possibile per la banca degli organi della nave abbia più senso che ficcarlo in un buco nel terreno — spiegò il comandante, cercando di non suonare brusco. — Naturalmente avete intenzione di tornare subito a bordo, vero?
— No.
— No?
— Tornare a bordo significa interrompere la missione, comandante. Mi sta ordinando di farlo?
— Lei ha detto che quel pianeta è inabitabile.
— Ho detto che “secondo me” è inabitabile. Ma ne abbiamo esplorato solo una minima parte, e questa radiazione psichica potrebbe esistere solo in questa regione. Un pianeta con aria respirabile non esiste in ogni angolo dell’universo: a parer mio dobbiamo esplorare almeno qualche altra regione prima di dichiarare fallita la missione.
— Questa missione ci è già costata un morto, Huw.
— Esattamente. Ecco perché voglio essere assolutamente certo che questo pianeta sia inabitabile prima di partire. La morte di Marcus non avrebbe veramente alcun senso se ci lasciassimo scoraggiare al punto da fuggire da un pianeta che invece poteva offrirci un asilo sicuro, se solo lo avessimo cercato.
Quelle parole vennero accolte da nuovo silenzio. Huw si chiese che razza di effetto stava sortendo la morte di Marcus sul comandante e sull’equipaggio della Wotan. Su di lui l’effetto drammatico aveva sempre meno presa, si disse. Il corpo contorto di Marcus, ancora ai suoi piedi, gli sembrava nulla più di una bambola spezzata, ormai.
Ancora una volta fu Huw a rompere il silenzio. — Comandante, vuole ordinarmi di interrompere la missione?
— No. Mi fido di lei, Huw. Che cosa intende fare?
— Il piano originale prevedeva di raggiungere a piedi la costa, ma la cosa non ha senso, ormai. Io mi sposterei subito su un altro continente per una breve ricognizione. Se anche là avvertiremo questa specie di radiazione negativa, torneremo subito a bordo. Adesso, per prima cosa, metteremo Marcus a bordo. Che ne pensa?