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Il comandante lo rispettava oltre ogni limite. Poco prima dell’alba, quando si alzava e si recava sulla spiaggia gelida per il primo dei rituali della disciplina giornaliera, vi trovava sempre il Maestro, già inginocchiato sul bagnasciuga e con le mani unite immerse nell’acqua. Non lo faceva per mortificare la carne, e neppure per commettere un peccato di orgoglio, dimostrando quanta sofferenza riusciva a infliggere a se stesso, ma piuttosto per mettere a fuoco la sua concentrazione, per schiarirsi la mente prima delle incombenze giornaliere. Tutti gli esercizi di Lofoten erano così. Andavano eseguiti per cercare l’elevazione spirituale, non per convincere se stessi o gli altri della propria santità. Lì non si parlava mai di santità: il monastero, in quell’epoca di realizzazioni materiali, seguiva un orientamento marcatamente secolare.

Il comandante rivisse per un attimo i giorni di Lofoten. La frastagliata catena di nude isole rocciose si ergeva come la colonna vertebrale di un immenso dinosauro sommerso nel mare norvegese, di fronte alla tormentata costa di nordovest. Un panorama brullo, battuto tutto l’anno dal vento. Lo scuro, tempestoso Vestfjord li separava dalla terraferma, mentre sullo sfondo si innalzavano i gelidi picchi innevati della catena montuosa centrale, un muro di granito corrugato. Gli sparsi prati erbosi; gli umidi cespugli di mirtillo; l’ampio e minaccioso orizzonte atlantico che curvava verso ovest. Quelle, una volta, erano isole di pescatori, ma i grandi banchi di merluzzi argentei si erano estinti da lungo tempo, e così la gente aveva abbandonato i piccoli villaggi della costa un tempo ricchi di atmosfera e tradizioni. La maggior parte delle isole era deserta ormai, tranne quella su cui sorgeva il monastero, un’ordinata linea di edifici in pietra a poche centinaia di metri dal mare.

La Corrente del Golfo bagnava quelle isole in pieno; il clima era rigido, ma non tanto come ci si poteva aspettare, vista la loro posizione. Dopo Ganimede, Io, Callisto e Titano, le isole di Lofoten sembravano un paradiso. Niente cespugli di mirtillo su Ganimede. Niente prati erbosi. Immergere le mani nude nei mari d’idrocarburi di Titano non portava benefici spirituali, ma solo una morte rapida. E, proprio dopo la sua ultima escursione sulla luna di Saturno, si era ritirato nel monastero, lasciando a Huw la gloria delle loro scoperte. Ritornando da Saturno, aveva sentito il bisogno di… di fuggire la società dei suoi simili. Era davvero così? No, non proprio. Non fuggire, ma piuttosto ritrarsene, vivere in qualche luogo tranquillo dove poter riflettere su ciò che aveva visto e appreso, sull’esistenza di forme di vita elementari in luoghi come Titano e Io, sull’ostinazione della vita davanti alle condizioni più ostili. Cosa significava quell’ostinazione? Che tipo di meccanismo era l’universo e che forze lo facevano muovere? Non che si aspettasse davvero delle risposte a quelle domande, ma non era del tutto sicuro che fossero quelle le domande di cui cercava le risposte. Semplicemente voleva porre ancora e ancora le stesse domande e provare a scoprire qualche collegamento tra loro, anche il più tenue. Lofoten era là ed era disponibile; Lofoten divenne quindi irresistibile. E quindi fu a Lofoten che andò: anche lui era scandinavo, e quindi conosceva quel luogo praticamente da sempre. Andare là era come tornare a casa, solo una casa leggermente diversa. Restò a Lofoten, recandosi ogni mattina all’alba sulla spiaggia fredda e ventosa per bagnarsi le mani nell’oceano artico sino a farle gonfiare dal freddo; e, alla fine, udì nuovamente il richiamo dell’avventura, rappresentata dal viaggio stellare, e comprese che doveva partire.

Il Maestro sapeva della sua decisione ancora prima che lui la prendesse. — Vengo a chiederle il permesso di partire — chiese lui finalmente.

Il Maestro gli rivolse un sorriso freddo e remoto come la luce della più lontana delle galassie e rispose: — Lo so. Per te è giunto il momento di portare l’uomo tra le stelle, non è forse così?

Huw disse:

— Bene. Adesso andremo giù a dare un’occhiata, vero? — E poi ripeté, visto che il comandante continuava a guardarlo in silenzio: — Vero?

La Wotan aveva abbandonato il non-spazio, di nuovo senza il minimo problema. Julia aveva eseguito le appropriate correzioni di rotta, e l’astronave era entrata in orbita a un paio di milioni di chilometri dalla superficie del secondo pianeta di quel sistema senza nome, scaldato da una stella di tipo K. Per tre giorni avevano studiato le caratteristiche di quel pianeta con gli strumenti di bordo. Huw e il comandante stavano esaminando proprio in quel momento un grande globo bianco e grigio che occupava il centro dello schermo. Una coltre di fitte nubi sagomata come un pianeta, con un pianeta che vi si nascondeva sotto.

Ma di che razza di pianeta poteva mai trattarsi?

— Dobbiamo scendere e dare un’occhiata di persona. Che ne dice? — chiese Huw, con tono vagamente disperato. Il comandante attraversava uno dei suoi periodi bui, in quei giorni, e i suoi pensieri erano celati come la superficie del pianeta che compariva sullo schermo.

Ancora una volta le conclusioni di Hesper si dimostrarono incredibilmente precise. Il pianeta B aveva una gravità più o meno simile a quella terrestre, pur con un diametro leggermente maggiore, e l’atmosfera era composta al ventidue per cento di ossigeno, al settanta per cento di idrogeno, al quattro virgola cinque per cento di vapore acqueo, che era molto anche se non insopportabile, e all’uno virgola settantacinque per cento di anidride carbonica. Il resto era composto di metano e vari gas inerti. Questo suggeriva un clima tropicale umido, e in effetti le rilevazioni confermarono che la temperatura media variava al massimo di un paio di gradi da polo a polo. Il pianeta risultava uniformemente caldo, quarantacinque afosi gradi Celsius praticamente ovunque. Un’unica giungla planetaria, miriadi di piante che producevano anidride carbonica a ciclo continuo e che coprivano probabilmente ogni metro quadro di terreno utile. Insomma, il caro vecchio Mesozoico li attendeva probabilmente là sotto.

Non c’era alcuna prova visiva di centri abitati di qualsiasi genere. Nessuna emissione elettromagnetica in nessun punto dello spettro, dai raggi gamma alle più lunghe onde radio. A casa non c’era nessuno, almeno in apparenza. Niente oceani, però, niente laghi e niente fiumi. Un’unica massa solida da polo a polo. Una vera stranezza, vista l’elevata percentuale di vapore acqueo presente nell’atmosfera. Tutta quell’acqua doveva pur condensarsi e precipitare di quando in quando, giusto? Anzi, visto il clima, probabilmente su quel pianeta non faceva altro che piovere. Dove andava a finire quell’enorme quantità d’acqua? Possibile che si limitasse a evaporare per tornare di nuovo nello strato di nubi? Oppure si raccoglieva da qualche parte sotto la superficie?

La sonda sonar rivelò qualcosa di ancora più strano. Quel pianeta era un’unica palla di roccia, praticamente priva di metalli pesanti, e probabilmente di qualsiasi tipo di metallo. La maggior parte era semplice basalto. La sonda indicò anche che la superficie era coperta da un enorme strato di una materia relativamente morbida che avvolgeva l’“intera” superficie, senza una singola apertura in nessun luogo. Materia vegetale, evidentemente. Una giungla planetaria. Bene, dopotutto ciò risultava coerente con i dati raccolti fino a quel momento sul clima e sulla composizione atmosferica. Ma successive rilevazioni mostrarono che quello strato di materia vegetale era spesso due, trecento chilometri. La montagna più alta della Terra misurava meno di nove chilometri! L’idea che quel pianeta fosse coperto da una giungla che affondava le radici a una profondità pari a venti, trenta volte il monte Everest era dura da accettare.