— Gallerie! — esclamò il comandante.
— Già, gallerie. — Huw indicò le registrazioni agli infrarossi. — Li vede questi piccoli oggetti che si muovono dentro le gallerie?
Il comandante osservò attonito la superficie blu e verde dello schermo. Punti di luce calda e violacea, con il viola che indicava una temperatura diversa dalla temperatura degli altri elementi superficiali, avanzavano lentamente lungo le linee scure che rappresentavano le gallerie.
— Ma quanto saranno grandi? — chiese.
Huw si strinse nelle spalle. — Dai venti ai cinquanta metri. Oggetti abbastanza grandi, comunque. Molto grandi. Non credo che ci troviamo davanti a una civiltà aliena, ma sono convinto che là sotto vi sia qualcosa…
— Che richiede un esame approfondito.
— Assolutamente.
Huw sorrise. Il comandante no. Si capivano alla perfezione, a volte. Erano irresponsabili, più che temerari. Quel pianeta era inutile. Tuttavia, loro volevano ugualmente penetrarne i segreti: ci sarebbero riusciti, c’era da scommetterci. Dopotutto ne avevano il diritto. Le curiosità andavano soddisfatte. E chi poteva saperlo? Forse avrebbero chiarito alcune cose che andavano assolutamente chiarite prima che la spedizione muovesse verso la sua successiva destinazione.
E così tra l’equipaggio si diffuse la voce che l’invio di una squadra di esplorazione era desiderabile, senza spiegazioni sui motivi che la rendevano tale, e che per motivi di sicurezza sarebbe stata composta da due sole persone, le più esperte dal punto di vista dell’esplorazione planetaria: Huw e il comandante. Huw preparò la navetta con molta celerità, e se qualcuno a bordo dubitava dell’utilità di esporre due insostituibili membri dell’equipaggio ai rischi di uno sbarco, si tenne l’obiezione per sé.
Huw ammiccò platealmente e alzò il pollice, mentre lui e il comandante si assicuravano alle poltrone antiaccelerazione. Da molto tempo, ormai, i due non partivano insieme per una missione esplorativa.
— Bene, vecchio mio, siamo pronti?
— Direi proprio di sì. È lei il comandante a bordo di questa navetta, quindi è lei a prendere le decisioni.
— Giusto — replicò Huw, ponendo la piccola navetta sotto il controllo del sistema di guida della Wotan. Un attimo più tardi la navetta si alzò e abbandonò dolcemente il ponte di decollo dell’astronave. Quando si trovarono a distanza di sicurezza dall’astronave, il computer accese i motori e la navetta iniziò la sua rapida discesa.
La grande massa sgraziata della Wotan, irta di braccia e antenne al punto da assomigliare a un improbabile ragno, rimpicciolì velocemente dietro di loro, mentre la superficie di nubi del pianeta B prese a espandersi con impressionante rapidità.
In pochi attimi si ritrovarono dentro lo strato di nubi. La sonda aveva determinato che si trattava delle care, vecchie nubi di vapore acqueo, insolitamente dense ma assolutamente innocue: nulla di paragonabile alla micidiale miscela di acido solforico che schermava Venere dal sole. La navetta scese ancora e ancora, per trovarsi infine nella madre di tutte le piogge, un vero e proprio diluvio universale di straordinaria intensità. Gocce di enorme spessore, vagamente verdastre, precipitavano a ciclo continuo da quelle enormi, buie cateratte; gocce dense, viscose, fitte al punto da impedire la vista. Ecco dove si trovavano gli oceani di quel pianeta, si dissero i due. Erano in costante movimento attraverso l’atmosfera, precipitando a terra per poi immediatamente evaporare senza mai accumularsi al suolo.
— Accidenti, che razza di posto abbiamo scelto per tornare a lavorare insieme! — esclamò Huw, assumendo il controllo manuale della navetta e rallentando la discesa per cercare un posto decente dove atterrare.
Ormai si trovavano abbastanza vicini al suolo da constatare, anche se attraverso la pioggia battente, la correttezza delle loro ipotesi. L’intera superficie del pianeta, infatti, appariva coperta da un fittissimo intrico di rampicanti giganteschi e apparentemente infiniti, i cui viticci avevano un diametro di almeno dieci metri e forse più, viticci che parevano alberi orizzontali e che si estendevano in ogni direzione senza lasciare neppure un metro quadro di spazio aperto tra loro.
Il sonar mostrò i tunnel sotterranei già rilevati dall’astronave. Si trovavano immediatamente sotto lo strato superiore di vegetazione, a una profondità di circa quaranta metri e si estendevano sia in profondità sia in senso orizzontale; ma mentre la loro estensione orizzontale era indefinita, in senso verticale sembrava non misurassero più di un chilometro. Nuove rilevazioni mostrarono che sotto l’intrico di rampicanti si trovava un’enorme massa spugnosa, spessa centinaia di chilometri, in cui i rampicanti affondavano delle fitte radici. Si trattava probabilmente della sostanza madre, della sottostruttura vivente dell’intero gigantesco organismo: sembrava chiaro che il pianeta B era occupato da un’unica, immensa entità vegetale, costituita dalla massa spugnosa da cui tutto nasceva. Sotto, molto, molto più sotto, si trovava la vera e propria struttura del pianeta, la massa basaltica su cui poggiava la sostanza spugnosa.
Dove atterrare? Non vi erano spazi aperti, nessun altipiano, nessun rilievo.
A quel punto, Huw decise di usare un po’ di propellente per aprire uno varco sufficiente. Alzò il muso della navetta verso l’alto e, con i retrorazzi, bruciò completamente i viticci di un settore ristretto, creando una zona sgombra dove atterrare. I viticci adiacenti non diedero mostra di alcuna reazione. Nulla si contorse, nulla si mosse; nulla diede anche lontanamente l’indicazione che l’assalto di Huw a quel piccolo settore di flora planetaria avesse provocato qualche sorta di risentimento, per non parlare di possibili azioni difensive.
Finalmente, la navetta si posò delicatamente. Huw dovette attendere un po’ prima che la navetta smettesse di oscillare: la zona di atterraggio appena improvvisata era piuttosto accidentata.
— Diamo inizio alle prove — disse Huw al comandante, senza che ve ne fosse realmente bisogno.
I due eseguirono tutti i test extraveicolari previsti, controllando questo e quello, la percentuale di acidità della pioggia, la possibilità di tossine nell’atmosfera, e via di seguito. Non che intendessero esporsi direttamente agli effetti dell’atmosfera: inutile togliersi i caschi, su un pianeta alieno che non poteva certo soddisfare le esigenze dei colonizzatori umani. Ma avevano abbastanza esperienza per sapere che determinate reazioni chimiche tipiche di certi ambienti extraterrestri potevano sortire effetti spiacevoli anche per gli esploratori protetti da tute spaziali. Pertanto era opportuno prendere delle precauzioni.
La pioggia cadeva incessante. Miriadi di colpi sottili percuotevano ogni secondo l’esterno corazzato della navetta.
— A questo punto cominciavo già a sentirmi strano sul pianeta A — disse Huw. — Quella sensazione di terrore mordeva già prima che mettessi piede fuori dalla navetta.
— E adesso?
— Niente. E lei?
— Mi sento assolutamente a posto.
— Bene. Ma vediamo un po’ come va una volta usciti di qui.
L’uscita dalla navetta fu preceduta da una piccola commedia. Il comandante, dopo aver ripetuto che considerava Huw alla guida della spedizione, indicò con un cenno il portello, lasciando intendere che spettava a Huw porre per primo il piede su quel pianeta. Ma Huw, che aveva già posto piede su un pianeta extrasolare, si dichiarò più che felice di lasciare l’onore al comandante e mosse un passo indietro indicando a sua volta il portello. Naturalmente c’era la possibilità che il primo a uscire subisse gli inaspettati effetti di una sorpresa poco piacevole, ma entrambi gli uomini si affrettarono a chiarire che solo il rispetto nutrito per l’altro li muoveva, non certo il timore di sorprese. La cortesia, in quel caso, era la sola ragione.
— Insisto — disse infine il comandante con una vena di irritazione. — Scenda, Huw.