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— Va bene. Se proprio insiste…

Huw oltrepassò il portello e scese con molta prudenza la scaletta per porre infine piede sulla superficie bruciacchiata e ancora leggermente sfrigolante della zona di atterraggio. Il terreno era vagamente elastico, e il piede vi affondava per qualche centimetro. Con sollievo, non avvertì alcun effetto psicologico particolare.

— Tutto bene, per ora — annunciò.

Il comandante lo raggiunse, e insieme si avviarono verso il margine della radura. Poi, dopo un attimo di esitazione, i due presero ad arrampicarsi su uno degli enormi viticci.

Era una cosa davvero poco invitante. Grosse foglie mezzo marce nere bluastre, senza gambo e butterate di grosse pustole piene d’aria, crescevano a intervalli irregolari direttamente dal tronco. Dai loro lati penzolavano dei filamenti carnosi rosso cupo, simili a viscere animali. Nei tratti lasciati libri dalle foglie, i viticci presentavano un tessuto sgradevolmente appiccicoso.

— Allora? — domandò Huw,

— Un po’ colloso, non trova?

— Voglio dire, come va con la sua mente?

— Funziona ancora alla perfezione, grazie. E la sua?

— A questo punto, sul pianeta A ero pronto a urlare. E in effetti urlavo, se ben ricordo. Ma le cose qui stanno andando in modo diverso. Bene, tanti saluti alla teoria di Giovanna. Meglio così.

— Che schifo di posto, vero? — commentò il comandante.

— Proprio ripugnante. È il primo in graduatoria, in questo senso. Vogliamo andare avanti ancora un po’, vecchio mio?

Sembrava di nuotare sott’acqua. In base ai loro calcoli era circa mezzogiorno, ora in cui una calda stella di media grandezza si trovava a picco proprio su di loro, a poche decine di milioni di chilometri di distanza, e tuttavia i due si muovevano in una luce fioca come quella del tramonto. Alzando gli occhi al cielo, videro un unico punto leggermente più luminoso nello spesso manto di nuvole che copriva tutto: là dietro si trovava il sole, nessun dubbio al riguardo. La pioggia battente in densi rovesci pareva lavar via anche le loro energie. Probabilmente su quel pianeta pioveva da milioni e milioni di anni: l’acqua colpiva le superfici rugose degli enormi viticci e scivolava senza mai fermarsi negli stretti spazi tra di essi. Una percentuale minima si infiltrava per centinaia di chilometri, fino ad accumularsi in sacche incredibilmente oscure prese tra la piatta superficie del nucleo roccioso e la parte inferiore dello strato spugnoso; ma la maggior parte cadeva a terra per evaporare istantaneamente e riformare il soffocante strato di nuvole. Infatti, tutt’intorno a loro grandi ammassi di vapore salivano caparbiamente verso il cielo, nonostante il continuo bombardamento verticale di quelle gocce enormi.

I viticci formavano una coltre davvero impenetrabile. A volte correvano affiancati per molti metri come enormi cavi elettrici; altri si sovrapponevano e si attorcigliavano soffocandosi a vicenda, fino a sparire sotto una coltre di nuovi viticci. Tra di essi non rimanevano trenta centimetri di spazio libero. Avevano una corteccia verde violacea, robusta di aspetto e tuttavia spugnosa, che cedeva un poco sotto i piedi dei due esploratori. Vi crescevano non solo foglie, ma anche strane masse fungoidi, disposte una vicina all’altra in gruppi estremamente sparsi, e un putridume viscido e grigiastro che doveva essere l’equivalente locale dei licheni. A mano a mano che si addentravano nell’intrico vegetale, divenne difficile evitare quel parassita, saprofita o simbiota, qualunque fosse la definizione più appropriata: la sua consistenza ricordava in qualche modo quella della panna ed era incredibilmente scivoloso. Tra le escrescenze di quella flora disgustosa spuntavano numerosi corpi ovoidali dal colore verde e l’aspetto liscio, posti tra le cortecce dei viticci a circa quattro, cinque metri uno dall’altro come una schiera di occhi spalancati: sembravano svolgere una funzione importante per i viticci. Forse si trattava di organi supplementari che contribuivano con le foglie al completamento del processo fotosintetico in quella torbida e umida atmosfera.

Tutto lì appariva marcio, decadente, in decomposizione: quel pianeta sarebbe stato una perfetta colonia penale, nel passato, quando si cercava di limitare il crimine efferato con punizioni altrettanto crudeli. Non sembrava servire ad altro, però.

— Che ne dice? — chiese Huw. — Abbiamo visto abbastanza?

Il comandante rispose indicando un punto proprio davanti a lui. Osservando attentamente, Huw vide una sorta di apertura circolare nella coltre di viticci, come l’apertura di una caverna. Era l’ingresso di uno dei tunnel rilevati con la strumentazione infrarossa, o almeno così sembrava. — Diamo un’occhiata da vicino? — disse il comandante.

— Ah. Mi sta dicendo che vuole andare là dentro, per caso?

— Già. Voglio vedere là dentro — fece il comandante in tono pacato.

— Be’, accidenti, perché no? — fu la replica davvero poco entusiasta di Huw. — Dopotutto siamo qui anche per questo.

Il comandante fece strada verso il tunnel, senza fermarsi a discutere su chi dovesse andare per primo. La galleria era bassa e ampia, larga forse una decina di metri, ma in alcuni punti poco più alta di loro. Scendeva dolcemente verso il basso attraverso la massa di viticci, tagliati quasi casualmente uno dopo l’altro. Le sue pareti, formate dalla sostanza che componeva i viticci, apparivano umide e rosa. Pareva di trovarsi in un gigantesco intestino. Una vaga luminescenza rischiarava la strada: proveniva dalle pareti, un debole, malsano chiarore che rompeva l’inquietante oscurità ma non risultava molto utile per illuminare eventuali ostacoli. Huw e il comandante accesero le lampade dei loro caschi e si addentrarono per qualche metro, poi per qualche metro ancora.

A un certo punto Huw disse: — Mi chiedo chi può aver scavato questo…

— Zitto! — esclamò il comandante, indicando nuovamente avanti a sé. — Guardi!

Avanzò ancora per una ventina di metri e illuminò tutto il tunnel con la lampada. Una barriera di qualche sorta bloccava la strada. Avvicinandosi, i due si accorsero che la barriera si muoveva lentamente in avanti: si trattava di una creatura impacciata, piatta e allungata, che non solo si muoveva come un verme lungo il tunnel, ma lo stava evidentemente creando, o perlomeno espandendo, divorando i tronchi dei viticci che le sbarravano la strada.

— Magnifico — mormorò Huw. — Pensa un po’, alla fine abbiamo trovato un vero e proprio extraterrestre. E di che bellezza si tratta!

Purtroppo non c’era modo di scoprire quanto fosse lungo il verme. La parte anteriore si perdeva nell’oscurità, molto avanti a loro. Tuttavia poterono constatare che il suo corpo era largo circa una decina di metri e alto al massimo due. Aveva carni traslucide, soffici di aspetto e di un rosa più intenso delle pareti del tunnel, quasi viola. Pori grandi quanto un pugno, neri e pelosi, si aprivano sui fianchi della creatura ogni cinquanta centimetri circa, continuando fin dove riuscivano a vedere. Da quegli orifizi usciva un rivolo continuo di bava biancastra, che scorreva lungo la curvatura del corpo per raccogliersi al suolo in grosse pozze. Una sorta di escremento, nessun dubbio in proposito. Il verme non era altro che una macchina organica nata per mangiare, priva di qualsiasi tipo di intelligenza, implacabile. Si apriva la strada masticando attraverso i viticci, e trasformava ciò che mangiava in un flusso continuo di bava.

E in effetti i due poterono udire il suono di mandibole venire dall’altro lato della creatura: un suono soffocato e un suono crudo tipico della masticazione, entrambi a cadenze estremamente regolari: una macchina organica nata per mangiare, proprio così.

I due uomini si avvicinarono lentamente, prestando attenzione a non calpestare i depositi di bava disseminati dal verme ai lati del tunnel. Una volta avvicinatisi tanto da risultare quasi imprudenti, divenne loro possibile percepire strane strutture tipo cisti vagamente luminescenti, sode e arrotondate e grandi quanto la testa di un uomo, distribuite con apparente casualità nelle carni della creatura a una profondità di trenta, quaranta centimetri. Quelle cisti erano facili da vedere a distanza ravvicinata perché emanavano una soffice luce giallastra, come un fuoco di braci dorate che bruciasse all’interno del verme, illuminandone le carni rosa trasparenti.