Sì, doveva. Di questo era certa, e anche il comandante. Qualunque fosse il rischio, doveva provarci. D’altro canto, tutti loro avevano accettato di rendere il rischio parte integrante della loro vita al momento di firmare le carte d’imbarco sulla Wotan: se esisteva anche solo la minima possibilità che Noelle riuscisse a rompere l’isolamento in cui si trovavano, quella possibilità andava esplorata sino in fondo. Non c’era scelta. Non potevano fuggire la realtà per sempre.
Da settimane, anzi da mesi, non avevano contatti con la Terra e gli effetti psicologici di quel silenzio cominciavano a farsi sentire in una miriade di modi diversi. Sembrava quasi che la Terra fosse stata distrutta da qualche catastrofe, e che loro fossero gli ultimi rappresentanti sopravvissuti della razza umana, un’arca, totalmente liberi dai vincoli del passato, totalmente liberi di dare nuova forma alle loro vite, prendendo qualsiasi strada paresse più opportuna. La natura conservatrice del comandante si ribellava a quell’anarchia. La Terra esisteva ancora. I componenti dell’equipaggio si sentivano obbligati verso la Terra per la loro presenza sull’astronave. La missione era sempre andata avanti agli ordini della Terra, per soddisfare precisi bisogni della Terra.
Tuttavia con il pianeta madre perso per sempre nelle profondità dello spazio…
Lui decise comunque di aspettare. Era in attesa del momento giusto.
La relazione tra lui e Noelle era ormai di dominio pubblico, a bordo. Entrambi non volevano nascondersi, e comunque farlo era difficile, forse impossibile; lui non aveva la minima voglia di imporle una relazione segreta come quella intrattenuta per tanto tempo con Julia. “Ma sì, che vedano” si diceva “che sappiano.” Presto, però, si rese conto che molti dei membri dell’equipaggio se lo aspettavano ormai da tempo. Heinz, per esempio, gli confessò di aver capito tutto già da un paio d’anni, e anche Julia: più volte gli sorrise con consapevolezza, pensando probabilmente che un lungo e romantico amore trova sempre alla fine il modo di esprimersi. Non sembrava soffrirne in alcun modo; anzi, sembrava felice per lui.
E quindi lui e Noelle si facevano vedere insieme alle terme, alle tavole di Go, nei corridoi. Lui dormiva nella cabina di lei, lei dormiva nella cabina di lui. Per la prima volta dall’inizio del viaggio, lui non dormiva solo. Lei era una meravigliosa miscela di passione e di innocenza, o perlomeno di innocenza apparente; tuttavia faceva l’amore con abilità e calore, con il desiderio di inoltrarsi in nuove sensazioni, di apprendere modi di stare insieme prima sconosciuti. Tutto quello ricordò al comandante il modo in cui Noelle aveva imparato a giocare a Go, tempo addietro: l’attenzione, l’impegno e la concentrazione nell’apprendere le regole del gioco, e infine la scoperta di un’enorme abilità.
L’ossessione per il Go non diminuiva mai a bordo, e il comandante, che ormai da anni giocava solo occasionalmente, riscoprì grazie a Noelle le sue ottime capacità di giocatore. Si recava nella sala comune ogniqualvolta i suoi compiti lo permettevano. Le sue tecniche di gioco mettevano però in difficoltà la maggior parte degli altri giocatori, per cui si confrontava quasi esclusivamente con Roy, Leon e Noelle, privilegiando naturalmente quest’ultima.
Lei era implacabile come sempre a Go. Nonostante tutto l’impegno che ci metteva, lui riusciva a vincere forse una partita su cinque.
Quel giorno, giocando con il nero, il comandante riuscì a restare all’offensiva fino all’ottantanovesima mossa. Ma Noelle riuscì a rompere l’accerchiamento a nord, presso l’unico punto poco rinforzato, e occupò una larga fetta di territorio centrale. Il comandante si scoprì incapace di replicare in modo soddisfacente. Prima che lui potesse contrattaccare, lei aveva occupato con una catena di pedine la diciannovesima linea, chiudendolo definitivamente nel suo territorio. Il comandante provò un notevole imbarazzo. Ricorrendo a tutti i trucchi, spezzò la prima offensiva di Noelle, ma anche così parve chiaro che la bilancia della partita cominciava a pendere a suo sfavore. Alla centoquarantunesima mossa decise di lanciare un attacco di sorpresa, che però venne miseramente schiacciato. Ormai marciava dritto verso la sconfitta, anche perché, deconcentrato, cadde come un novellino nella più classica delle trappole di Go, perdendo un gran numero di pedine per catturarne una. Finalmente alla mossa centonovantasei si ritirò, ammettendo la sconfitta. Lui aveva perso ottantuno pedine, lei sessantadue.
Sgomberando la scacchiera per la rivincita, lui le chiese con apparente casualità: — Hai pensato alla faccenda degli angeli, Noelle?
— Ma certo. Ci penso sempre.
— E?
— E cosa?
— Hai qualche idea su come tentare il contatto?
— Ho qualche teoria al riguardo, sì. Ma naturalmente resteranno solo teorie finché non avrò compiuto il primo tentativo.
Il comandante attese qualche istante prima di parlare. — E quando pensi che ci proverai?
Lei assunse una delle sue speciali espressioni, soffermando i suoi occhi su di lui e sorridendo in quel modo particolare che lasciava intendere che sotto c’era dell’altro. E quella volta non poteva trattarsi che di disincanto.
— Quando vorrai — rispose lei.
— Che ne diresti di provarci oggi?
13
“Che ne diresti di provarci oggi?” Già, perché no? Tanto prima o poi andava fatto. Non potevano più rimandare: lui lo sapeva, lei anche. Ogni giorno era buono ormai, ma quello era il momento.
Noelle, però, volle provarci nella sua cabina, tra le cose a lei familiari e completamente sola. Aveva dovuto insistere per quello. Prima si concesse diversi minuti di attesa, un po’ di autoindulgenza. Si aggirò nella cabina, prendendo in mano ora questo, ora quello, il guscio del riccio di mare, la lucida pietra di giada, le piccole statuette di bronzo, gli animali impagliati dal pelo morbido. Una volta quelle cose appartenevano sia a lei sia a Yvonne. Tra loro non poteva esistere il senso del possesso, mio o tuo non faceva alcuna differenza; poi Yvonne aveva insistito perché lei portasse comunque quegli oggetti con sé a bordo della Wotan, magici talismani di una vita condivisa. “Sono sempre stati nella tua stanza” le aveva detto. “Portali con te: io potrò sempre sentirli attraverso le tue dita.”
Vero. Ma non più, ormai.
Forse ciò che si accingeva a fare poteva far sì che Yvonne sentisse nuovamente quegli oggetti attraverso le sue dita. Quelle cose che una volta erano state loro e che ormai erano soltanto sue. Forse. Forse.
Si sdraiò. Un profondo respiro, poi un altro, poi chiuse gli occhi. Per qualche motivo, chiuderli sembrava aumentare i suoi poteri, come pensava spesso.
E, piano piano, un sottile filamento di pensiero si estese dalla sua mente, provando timidamente a espandersi, oltrepassando le pareti metalliche dell’astronave, avanzando nelle volute di energia del non-spazio, puntando verso l’alto, su, sempre più su verso… verso…
Angeli?
Chi poteva mai sapere cosa fossero? Ma lei era conscia della loro presenza ormai da tempo, fin dalle prime interferenze, nebbiose presenze, grandi, enormi masse di potere mentale che fluttuavano sopra di lei da qualche parte là fuori nel… come si chiamava? Nell’Intermundium. Sì, nell’Intermundium, il grande spazio grigio tra i mondi. Lei ne aveva percepito la presenza proprio là, non come entità individuali ma piuttosto come presenze, o forse una singola presenza suddivisa in molte parti.
E ora li stava cercando.
“Angeli? Angeli dove siete? Angeli?”
L’astronave ormai era lontana, e lei si allontanava sempre più, là fuori nel vuoto uniforme del tunnel di non-spazio, arrivando a quello che da sempre riteneva il massimo della sua portata, per poi scoprire di poter avanzare ancora un poco, ancora un poco. Si vedeva ormai come una linea luminosa protesa nel cosmo, una linea priva di inizio, priva di fine e di sostanza, un punto infinitamente esteso di energia radiante, una striscia immateriale di luce accecante, un raggio puro.