Ciò che la commissione cercava, e che già sapeva di trovare in tutti coloro che erano stati scelti ancor prima che l’esame formale cominciasse, era l’espressione di un giustificabile senso di autostima temperato da una buona dose di filosofico realismo. Chiunque avesse perso il controllo, urlato, pianto, pregato, minacciato sarebbe stato inevitabilmente rifiutato. Ma nessuno lo fece, nessuno dei cinquanta prescelti.
Alla fine dell’intero processo, fu la volta di Noelle di presentarsi davanti agli esaminatori. Anche con lei si ripeté la solita commedia. La fecero parlare per un po’ per poi concludere con il solito verdetto: — Siamo spiacenti, ma lei non è adatta a un’impresa di questo tipo. — Noelle restò seduta per un attimo in silenzio, come per cercare di comprendere le strane parole appena udite, poi disse con il suo solito tono di voce flebile e pacato: — Forse preferite che vada mia sorella. — Era la risposta perfetta, o almeno così le dissero. Sua sorella, aggiunsero, aveva risposto esattamente la stessa cosa.
— Insomma, allora non volete mandare nessuna di noi due? — domandò Noelle vagamente confusa.
— Era solo per provare la sua reazione, signorina.
— Ah — disse lei. — Capisco. — E rise, rise come una sciocca, come faceva sempre quando usava quel verbo in particolare, mentre gli esaminatori, pur non sicuri del perché ridesse, ridevano con lei.
Alla fine dell’esame, Noelle chiese loro come avevano fatto a decidere quale sorella dovesse restare e quale dovesse partire.
— Abbiamo lanciato una moneta — fu la risposta.
Lei non riuscì mai a scoprire se fosse la verità.
Noelle dormiva un sonno pieno di sogni agitati. Si trovava a bordo di una nave, un antico tre alberi che lottava per non farsi travolgere da un gelido mare. Lei lo vedeva, lo vedeva! Il sartiame riluceva di grossi ghiaccioli, che di quando in quand.o si staccavano per il forte vento, schiantandosi sul ponte con suoni cristallini. Anche il ponte era coperto da una sottile crosta di ghiaccio, e attraversarlo costituiva un’impresa insidiosa. Grandi iceberg erosi dal vento fluttuavano maestosi nelle acque grigie, innalzandosi per superare le onde e ricadendo con un tonfo. Cozzare contro una di quelle montagne di ghiaccio significava la morte certa. Fino a quel momento erano stati fortunati, ma ormai qualcosa di molto più sottile minacciava l’esistenza di quanti si trovavano a bordo. Il mare stava gelando. Sembrava quasi coagularsi, diventare più vischioso, gonfiarsi lentamente. Grandi lastroni lucenti cavalcavano le onde, mentre nuovo ghiaccio si formava, frantumandosi subito dopo con un costante crepitio. I lastroni sembravano in guerra, intenti a distruggersi, a erodersi, a sminuzzarsi. Ma da quel marasma emergeva nuovo ghiaccio, più solido, più spesso e uniforme, chiaramente destinato a formare un unico, immenso pack gelato. E, una volta compiuta l’opera, per la nave non vi sarebbe stato più scampo. Quello era solo l’inizio, ma la nave aveva già sensibilmente rallentato. Le vele garrivano inutilmente, tendendo le corde oltremisura. Il vento traeva lugubri note dal sartiame gelato. Lo scafo gemeva come un vecchio malato per la presa sempre più forte del ghiaccio. Il fasciame stava cedendo. La fine era vicina. Nessuno poteva far nulla per loro. Sarebbero morti tutti, tutti! Noelle emerse dalla sua cabina e salì sul ponte, dove strinse forte la balaustra, ondeggiò, pregò e si chiese quando il vento gelido avrebbe stracciato la tela irrigidita delle vele. Nessuno poteva salvarli. Ma… sì, sì! Una luce comparve all’orizzonte. Yvonne, Yvonne! Sua sorella arrivò fluttuando a mezz’aria come una dea nel cielo nero pieno di stelle. Da lei si irradiava una luce calda e dorata. Il suo sorriso aveva il potere di sciogliere il ghiaccio. E subito questi allentò la morsa. L’aria si fece più calda. Le vele si gonfiarono al vento. La nave era libera, libera di proseguire la sua rotta verso i tropici, verso le terre delle perle e delle spezie.
— Secondo alcuni, il mondo finirà nel fuoco — disse Elizabeth. Nella sala comune, i discorsi di coloro che attendevano il loro turno di Go volgevano decisamente al catastrofico. — Secondo altri, la fine verrà col ghiaccio.
— Stai citando qualcuno? — volle sapere Huw.
— Come puoi dubitarne? — s’intromise Heinz con ironia. — Tutti sanno che Elizabeth adora citare qualcuno.
Elizabeth, una splendida donna dai capelli biondi e dalle gambe lunghe e affusolate era, tra le altre cose, la cronista e la poetessa ufficiale della spedizione. Oltre agli incarichi ufficiali, molti a bordo avevano un incarico speciale concepito più che altro per favorire lo scorrere del tempo. D’altro canto, possedere molteplici capacità era la norma. Ma l’interesse principale di Elizabeth era la poesia. — Secondo me sta citando Shakespeare — concluse Heinz.
— Oh no, troppo indietro! — intervenne Giovanna, alzando gli occhi dalla scacchiera. — Questi versi non hanno più di due, tre secoli al massimo. Era un americano?
— Era Frost — replicò Elizabeth. — Robert Frost.
— Cos’è, una marca di gelati? — domandò una voce anonima.
— No, è il nome di un poeta — ribatté qualcuno.
— Da ciò che provai del desiderio — riprese Elizabeth, stavolta recitando apertamente — io sto con coloro che credono alle fiamme.
Il comandante entrò nella sala comune proprio in quel momento. — E lei, comandante, che ne pensa? — domandò Paco con il suo solito tono, libero quanto ironico. — Come andrà a finire l’umana avventura? Supernova? Superoceani? Supercaldo o superfreddo? Peste bubbonica? Siccità? Vulcani? Forza, dia il suo contributo.
— “Fimbulwinter” — replicò prontamente il comandante. — “Ragnarok” — Le due barbariche parole, ormai dimenticate, gli uscirono all’improvviso come dotate di volontà propria. I venti settentrionali della sua infanzia soffiarono per un istante nella sua mente con tutta la loro terribile forza, portando con loro l’immagine di un paesaggio boreale scintillante di brina nonostante la scarsa luce invernale.
— Il crepuscolo degli dei, certo — disse Elizabeth, rivolgendo al comandante uno smagliante sorriso di fulgido amore che lui, perso in ricordi polari, ignorò del tutto.
Molti occhi si puntarono su di lui. I suoi compagni di viaggio volevano saperne di più. Il comandante disse, sforzandosi al massimo per tradurre in parole gli ancestrali ricordi: — E venne il giorno in cui il sole si fece nero. Non più luce, non più calore, tre volte inverno senza il tepore dell’estate: questo è il “Fimbulwinter”, il grande inverno che preannuncia la fine del mondo. E ovunque nell’oscurità si accende la battaglia, e per avidità il fratello uccide il fratello, mentre il padre giace con la figlia e il fratello giace con la sorella: l’effimero regno di Gomorra.
Elizabeth annuì. Anche lei conosceva questi antichi poemi scaldici. Tra sé e sé, dondolando ritmicamente avanti e indietro, mormorò: — L’era dell’ascia, l’era della spada, quando gli scudi saranno squarciati. L’era del vento, l’era del lupo, quando il mondo è prossimo alla fine.
— Sì — disse il comandante, rabbrividendo per le travolgenti, antiche immagini che turbinavano nella sua mente. — Un grande lupo farà a pezzi il sole, e un altro lupo farà a pezzi la luna. Le stelle spariranno dai cieli. Gli alberi verranno sradicati, le montagne cadranno e tutti i vincoli e le catene verranno recisi. Il mare valicherà i suoi confini e il serpente di Midgard muoverà per strisciare sulla terra e vomitare il suo veleno nell’aria e nell’acqua, mentre il lupo Fenris spezzerà le sue catene e avanzerà con la grande bocca aperta, la mascella inferiore verso la Terra e la mascella superiore verso il cielo. Nulla nel mondo sarà più libero dalla paura. Perché questo è il giorno in cui anche gli dèi incontreranno il loro destino.