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Il comandante cadde in silenzio, visualizzando nella sua mente l’ultima, titanica battaglia: Thor che uccideva il serpente, rimanendo però vittima del suo veleno; il grande lupo Fenris che divorava lo stesso Odino, trovando però la morte per mano di Vidar; il demoniaco Surtr, che cavalcava fuori dai confini del Muspelheim spargendo fuoco sulla Terra sino a farla bruciare tutta… ma il comandante decise di non aggiungere nulla. Per i suoi gusti, aveva occupato il centro della scena già fin troppo a lungo. Per giunta, una sorta di artica malinconia stava cominciando a prendere il suo spirito. Il fuoco, le tenebre, i lupi feroci e affamati che scorrazzavano sulla Terra in fiamme. La Terra dei suoi antenati Vichinghi, tanto lontana ormai, sospesa nel buio della notte e in perenne rotazione sul suo asse in qualche punto dello spazio dietro di loro: un puntino, un granello di sabbia. Nulla, e al contempo tutto.

Dopo qualche istante fu Elizabeth a riprendere il racconto.

— Furia di fumo e di fuoco, fiamme ribollenti. Il calore è tanto alto che sfiora i cieli stessi — disse, ma nonostante la sua mente fosse un affollato deposito di racconti e poesie, si accorse di non ricordare più la fine della storia.

— E dopo? — domandò Paco, muovendo entrambe le braccia per poi allargarle in modo plateale. Paco era un uomo di grande forza morale e personale, muscoloso e tarchiato, e qualsiasi gesto compisse finiva col rivelarsi molto più vigoroso di quanto lui non intendesse. — È finito? Il mondo brucia, tutti muoiono e basta? In quest’opera il sipario cala così, all’improvviso? Non posso crederci.

— Poi viene il momento della redenzione — spiegò il comandante con voce distante. — La rinascita. Il nuovo mondo che nasce dalle ceneri del vecchio.

Non ne era certo, in effetti. Molti dettagli delle storie che gli raccontava sua nonna si erano dissolti dopo tanti anni. Tuttavia doveva essere così. Ogni mito prevedeva la rinascita, senza riguardo per il luogo di provenienza. Il mondo veniva distrutto in modo che potesse rinascere fresco e puro. Altrimenti quelle storie non avrebbero avuto senso. E il crepuscolo degli dèi non poteva terminare con una notte senza fine e senza scopo. In quel caso, la vita nel suo complesso sarebbe stata ridotta all’esperienza di un singolo individuo: ognuno di noi è nato a suo tempo e ora vive, bene oppure no a seconda delle circostanze, per poi morire. Arrivederci e grazie, per noi finisce qui. Così non era, invece, poiché quello era il ciclo del singolo individuo: nuove vite avevano continuamente inizio a mano a mano che la nostra procedeva, nell’eterno ciclo della rinascita e del ritorno. Noi moriamo, certo, ma il mondo che ci circonda continua a vivere poiché alla morte fa sempre seguito nuova vita. E così andava per gli stessi pianeti. Prima o poi dovevano morire, ma nuovi mondi nascevano dalle spente ceneri dei vecchi, e quindi tutto continuava, vita senza fine, sempre una nuova alba oltre la notte che subentrava al giorno. La vera fine non poteva esistere. Non poteva.

— Sapete — disse Heinz con voce gentile. Heinz parlava sempre con voce gentile. — Per noi la Terra è già distrutta. Davvero. Perché noi non la rivedremo mai più. E quindi sta già diventando una specie di mito. In un certo qual modo era un mondo morente quando l’abbiamo lasciato, non è forse vero? E per quanto ci riguarda adesso è morto, e noi siamo la rinascita. Noi, gli ovuli e lo sperma che abbiamo nei congelatori.

— Se — replicò Paco. — Non scordiamoci il grande “se”.

Heinz rise. — Non c’è alcun grande “se”. L’universo è pieno di mondi abitabili, e noi li troveremo. Uno su un milione è tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

In effetti Heinz, aveva ragione. Tutti concordavano. Il pianeta che avevano lasciato era essenzialmente morto, almeno per quanto riguardava gli esseri umani, nonostante qualche centinaio di milioni di persone continuasse a viverci. Aveva superato con successo le convulsioni del ventesimo e del ventunesimo secolo, la miriade di acute crisi demografiche, nazionalistiche e ambientali, per giungere infine in un’epoca tanto statica e spenta da risultare a malapena distinguibile dalla morte intellettuale. Perché lo sviluppo si era completamente arrestato, mentre la voglia di miglioramento aveva cessato di fare da motore alle attività umane. La Terra di quell’epoca era la dimora di gente sana, conservatrice, ricca e altamente civilizzata, che viveva una vita facile in una società garantita sostenuta da macchine intelligenti di ogni tipo. Tutti i problemi dell’essere umano erano stati risolti; tutti tranne uno, il più grave: il fatto che le soluzioni fossero diventate dei problemi. E così le linee di tendenza puntavano inevitabilmente verso il basso, verso la decadenza, l’estinzione. Nessuno poteva aspettarselo, in effetti. Nessuno scienziato, nessun politico aveva previsto che la fine del caos, della lotta per la vita portasse con sé anche la fine della società umana. Tuttavia stava accadendo. L’ultimo sussulto di vitalità erano loro, era la Wotan che avanzava a gonfie vele nelle immensità dello spazio, allontanandosi sempre più da casa a ogni battito del cuore.

Incredibile ironia, certo. Un vero e proprio scherzo cosmico. La società umana finalmente libera dalle guerre, dai conflitti di ogni tipo, dalle disuguaglianze, dalle malattie e dalle privazioni precipitava verso la sua fine in una spirale apparentemente irreversibile. Intanto i suoi componenti tenevano feste decadenti e annoiati cocktail-party in cui si parlava dell’inevitabile fine della società umana in cinque, seicento anni, un concetto che a nessuno importava di mettere in discussione, e quelle chiacchiere spingevano la maggior parte della gente a fermarsi e a pensare alle vicende del destino ultimo per… be’, non più di dieci, quindici minuti.

L’esplosiva crescita della popolazione registrata nei primi secoli dell’era industriale si era arrestata a tal punto che quasi nessun bambino nasceva più. Nonostante la gente vivesse più di cent’anni, almeno nella maggior parte dei casi, non vi era regione al mondo in cui la popolazione non fosse in rapido declino. D’altro canto, la nascita di un bambino era diventata un evento tanto insolito da cogliere le istituzioni impreparate in molti casi. Il ricambio generazionale era fermo. Le città erano diventate degli immensi, anonimi agglomerati di villette con piscina abitate da eserciti di pensionati senza bambini.

Tutti, naturalmente, si rendevano conto del problema, ma nessuno sembrava in grado di fare qualcosa. La calma, matura, comoda, emotivamente stabile popolazione di quell’epoca nutriva ben poco interesse per i figli, e solo gli esperimenti finanziati dalla collettività garantivano quel minimo di ricambio necessario, grazie a intere colonie di bambini concepiti in provetta e cresciuti ben lontano dal mondo degli adulti.

Ciò che la razza umana stava facendo, anche se nessuno osava proclamarlo apertamente, era spianale consapevolmente la strada alla propria estinzione. La maggior parte della gente lo sapeva, e lo trovava molto triste… ciononostante, chi si sarebbe mai sognalo di fare qualcosa semplicemente mettendo al mondo un figlio?

La Wotan rappresentò una risposta a quel problema. Tutto cominciò con la nascita di un movimento, il primo vero movimento di opinione in circa due secoli, che chiedeva di unire le risorse per ricreare la società umana su qualche lontano pianeta. Diverse decine di persone tra le più vive ed energiche della Terra, uomini e donne dai venti ai quarant’anni, sarebbero partite a bordo di un’astronave interstellare per fondare una colonia umana in un lontano sistema planetario. La speranza era che, grazie alle sfide di un nuovo ambiente primitivo e incontaminato, i coloni e i loro figli nati tra le stelle potessero catturare nuovamente quell’energia e quella voglia di lare che un tempo venivano definite le migliori caratteristiche della specie umana. E, una volta ritrovato il gusto dell’avventura, lo spirito pionieristico e quant’altro, i coloni o i loro figli e nipoti potessero tornare sulla Terra e trasmettere la loro voglia di vivere ai suoi stanchi abitanti.