Il buonumore riprese subito il sopravvento, e con gesto deciso, quasi militaresco, mi lisciai con l’unghia del pollice i baffetti corti e dritti che ornano il mio labbro superiore, per poi sollevare automaticamente la mano a rimettere a posto la grossa virgola di capelli neri (confesso che li tingo) che tende sempre a ricadermi sulla fronte.
Lanciai un’altra occhiata a quell’argentea meraviglia dell’Ostwald, ripensando alle incomparabili comodità offerte dal dirigibile di gran lusso: i motori silenziosi che facevano girare le eliche, motori elettrici, naturalmente, a cui fornivano l’energia necessaria le batterie TSE, sicure al cento per cento come l’elio; il Grande Corridoio che correva lungo tutto il ponte di passeggiata dall’Osservatorio di Prua alla Sala Giochi di poppa, anch’essa a vetrate, trasformabile di notte in Gran Sala da Ballo; i meravigliosi ambienti che si aprivano sul corridoio, come il «Gesellschaftstraum der Kapitan» (Salotto del Capitano) con i pannelli di legno scuro, la sala da fumo per uomini e la «Damentische» (Sala di ritrovo per le signore), il Ristorante con le tovaglie di lino e la posateria di alluminio placcato argento, il bar Schwarzwald, la sala da gioco con la roulette, il tavolo da baccarat, chemindefer, blackjack («vingt-et-un»), e i tavolini per lo skat, il bridge, il domino e il sessantasei, le scacchiere (cui presiedeva il deliziosamente eccentrico campione del mondo Nimzowitch, capace di vincere tutte le partite contemporaneamente, e in modo sempre brillante) con i pezzi in stile barocco, e le lussuose cabine coi mobili di balsa impiallacciati di mogano; e poi gli attenti e premurosi steward, tutti piccoli e magri come fantini, quando non erano dei veri nani (scelti così per risparmiare peso), e l’ascensore di titanio che, risalendo tra gli innumerevoli involucri di elio, portava ai due ponti dell’Osservatorio Zenith, il ponte scoperto, con le pareti laterali trasparenti ma privo di tetto per lasciar libero ingresso alle nubi mutevoli, alla nebbia misteriosa, ai raggi delle stelle e del sole, al cielo stesso. In quale altro posto del mondo si poteva vivere in mezzo a tanti agi? Mi piacque rammentare nei minimi particolari la cabina che mi veniva sempre riservata quando m’imbarcavo sull’Ostwald, «meine Stammkabine». Rividi con gli occhi della mente il Grande Corridoio stipato di ricchi passeggeri in abito da sera, di prestanti ufficiali, di attenti e premurosi steward, e il luccichio degli sparati candidi, lo splendore delle spalle nude, lo scintillio dei gioielli, la musica delle conversazioni, simile a quella di un quartetto d’archi, le risate sommesse e armoniose che le accompagnavano.
Con perfetto tempismo eseguii un «Links, marschiren» («Fianco sinist», marsc!) e varcata l’imponente soglia dell’Empire State, entrai nell’enorme atrio dove, sull’orologio dal quadrante d’argento, lessi la data e l’ora: 6 maggio 1937 — 13 h. 7’. Bene! Poiché l’Ostwald non sarebbe partito che al rintocco delle tre pomeridiane avevo tutto il tempo di consumare un sostanzioso pasto e di parlare con mio figlio, se si era ricordato dell’appuntamento. Ma non avevo dubbi su questo, poiché è un figlio rispettoso e beneducato, un vero esempio della sua sana mentalità tedesca.
Attraverso la folla di persone eleganti e distinte che gremiva l’atrio, senza creare ressa e confusione, mi diressi all’ascensore con la scritta «Al Dirigibile», e, in tedesco, «Zum Zeppelin».
L’addetta all’ascensore era una graziosa giapponesina che sulla casacca d’argento portava l’emblema della DGL, l’Unione Aerea Tedesca, un dirigibile sormontato da un’aquila bicipite. Notai con piacere che parlava con altrettanta scioltezza sia l’inglese che il tedesco e che era gentile con tutti i passeggeri in quel caratteristico modo un po’ freddo che hanno i giapponesi, e che in certi aspetti somiglia alla precisione scientifica del nostro stile tedesco, sebbene la nostra lingua abbia un caldo sottofondo passionale. Com’è bello che le nostre federazioni, ai lati opposti del globo, mantengano ottimi rapporti culturali e commerciali!
Gli altri passeggeri, per lo più americani e tedeschi, erano tutti gente di classe, molto ben vestiti, eccezion fatta per quel tetro ebreo in nero che avevo già visto e che s’infilò in cabina proprio mentre si chiudevano le porte. Mi parve che si sentisse a disagio, forse a causa del suo abito logoro, e fui sorpreso di vederlo, ma mi feci un punto d’onore di mostrarmi cortese con lui rivolgendogli un lieve inchino accompagnato da un sorriso. Dopotutto gli ebrei hanno anche loro il diritto di godersi gli agi e il lusso come chiunque altro, se hanno il denaro per permetterseli… e molti di loro lo hanno.
Durante il tragitto mi tastai il taschino della giacca per accertarmi di non aver dimenticato il biglietto, di prima classe! e i documenti, ma soprattutto volevo sentire il rassicurante gonfiore della tasca interna, chiusa da una cerniera lampo, dove avevo riposto i documenti che mi procuravano tanta gioia e tanto orgoglio: gli accordi preliminari, firmati da entrambi i contraenti, che avrebbero permesso all’America la costruzione di Zeppelin per passeggeri. La Germania moderna è sempre generosa e pronta a condividere le sue conquiste tecniche con le nazioni sorelle, fiduciosa che il genio dei suoi scienziati e l’abilità dei suoi tecnici la manterranno sempre alla guida degli altri paesi. Dopotutto, il genio di due americani, padre e figlio, aveva dato un contributo essenziale anche se indiretto allo sviluppo dei viaggi aerei sicuri (e non dimentichiamo la parte avuta dalla polacca, moglie del primo e madre del secondo).
Scopo principale del mio viaggio a New York era stato proprio raggiungere quell’accordo, ma io ero riuscito ad accompagnare i doveri della mia permanenza nella metropoli americana al piacere di passare lunghe ore con mio figlio, lo storico sociale di grande avvenire, e della sua affascinante sposa.
Quelle felici riflessioni furono interrotte dall’arrivo senza la minima scossa della cabina al centesimo piano. Il tragitto che il vecchio King Kong innamorato aveva compiuto con tanta fatica, noi invece l’avevamo fatto senza nessuno sforzo. Le porte d’argento si spalancarono e gli altri passeggeri esitarono un attimo prima di scendere, forse intimoriti al pensiero del viaggio che li aspettava; io, da quell’«habitué» dei viaggi aerei che sono, scesi per primo, non senza aver rivolto un cenno e un sorriso d’approvazione alla mia collega giapponese di bassa categoria.
Dopo aver dato appena un’occhiata all’enorme finestra panoramica che si apre di fronte all’ascensore e da cui si gode l’incomparabile vista di Manhattan dall’altezza di 335 metri meno due piani voltai subito, non a destra dove si trovavano la Sala d’Aspetto e l’ascensore della Torre, ma a sinistra, dove si apriva la porta del lussuoso ristorante tedesco «Krahenest» (Nido del Corvo).
Passai attraverso la fila delle statuette che fiancheggiano l’ingresso e rappresentano Thomas Edison, Maria Sklodowska Edison da un lato, e Thomas Sklodowski Edison e il conte von Zeppelin dall’altro, ed entrai nel recinto riservato del più elegante ristorante tedesco fuori dei confini della madrepatria. Mi soffermai a dare un’occhiata d’assieme allo spazioso locale dai pannelli di legno scuro scolpiti con bellissime raffigurazioni della Foresta Nera e dei suoi mitologici abitanti: coboldi, elfi, gnomi, driadi (piacevolmente sexy) e simili. Mi interessavano in quanto io sono uno di quelli che in America chiamano pittore della domenica, anche se i soggetti dei miei quadri sono quasi sempre zeppelin sullo sfondo di cieli azzurri e nuvole ariose.