Questi brucianti ricordi mi si affollavano nella mente, mentre mio figlio proseguiva: — Nel momento cruciale, in quel novembre millenovecentodiciotto, si presentò la possibilità, i miei studi lo hanno dimostrato al di là di ogni dubbio, che i nemici ci offrissero un armistizio e noi lo accettassimo. Il presidente Wilson era incerto, i francesi stanchi, e così via. E se questo si fosse verificato, Dolf, ascoltami bene, la Germania sarebbe entrata nella decade del millenovecentoventi con uno stato d’animo completamente diverso. Convinta di esser stata vinta ma non battuta, avrebbe favorito la recrudescenza del militarismo pan-germanico. E l’umanismo scientifico tedesco non avrebbe riportato una vittoria netta e decisiva sulla Germania degli, sì, diciamolo pure, degli Unni.
«Quanto agli alleati, irritati per non aver raggiunto la vittoria completa che avevano avuto a portata di mano avrebbero finito col trattare la Germania molto meno generosamente di quanto non fecero dal momento che la loro sete di vendetta era stata placata dall’avanzata fino a Berlino. La Società delle Nazioni non sarebbe diventata quel solido strumento di pace che è oggi. Forse l’America l’avrebbe sconfessata e sicuramente la Germania l’avrebbe detestata. Le ferite non si sarebbero mai rimarginate perché, paradossalmente, non erano state abbastanza profonde. Ecco, Dolf, ho finito, e spero di non averti turbato troppo.
Io mi lasciai sfuggire un profondo respiro. Poi le rughe della mia fronte si spianarono e dissi, in tutta sincerità: — No, figliolo mio, anche se hai toccato nel vivo le mie vecchie ferite. Tuttavia sono convinto che la tua interpretazione sia valida. Voci di armistizio circolavano fra le truppe in quel nero autunno del millenovecentodiciotto. E so fin troppo bene che se avessimo accettato l’armistizio allora, gli ufficiali come me avrebbero pensato che i soldati tedeschi non erano stati realmente sconfitti, ma solo traditi dai capi e dai sovversivi rossi, e avremmo cominciato a cospirare in modo da poter riprendere la guerra in circostanze più favorevoli. Figlio mio, brindiamo alle tue brillanti intuizioni.
I nostri bicchieri si toccarono con un delicato tintinnio, e bevemmo le ultime gocce lievemente amarognole del «Kirschwasser». Io imburrai una fettina di «pumpernickel» — è buona cosa terminare il pasto con il pane — e la mordicchiai. Un senso di pace di grande soddisfazione mi invase. Era un momento aureo, uno di quei momenti che sarei stato felice durassero per sempre, mentre ripensavo alle parole di mio figlio e me ne compiacevo profondamente. Sì, quella pausa fu come una pepita d’oro nello scorrere incessante del tempo… la conversazione stimolante, gli ottimi cibi, le deliziose bevande, l’ambiente lussuoso…
In quel momento i miei occhi si posarono per caso sull’ebreo, la cui presenza strideva, mi spiace ammetterlo, nell’ambiente e col mio stato d’animo. Non so perché, mi fissò un attimo con odio, poi abbassò subito lo sguardo…
Tuttavia quel piccolo incidente, per quanto inquietante, non turbò la mia pace, che pensai di prolungare dicendo: — Caro figliolo, questo è il pranzo più eccitante anche se singolare che abbia mai gustato. Le tue ipotesi sui momenti cruciali della storia mi hanno aperto favolosi orizzonti in cui stento ancora a credere. Un mondo orribile di Zeppelin a idrogeno che si possono incendiare, di migliaia e migliaia di auto a benzina costruite da Ford al posto di quelle elettriche, di Negri americani tornati schiavi, di Madame Curie o Becquerel, senza la batteria T.S.Edison e senza T.S.Edison stesso, un mondo in cui gli scienziati tedeschi sono dei sinistri paria invece che tolleranti e umanitari leader del pensiero umano, un mondo in cui un vecchio Edison privo del valido aiuto della sua compagna, pensa, senza riuscire a crearla, a una potente batteria elettrica, un mondo in cui Woodrow Wilson non insiste perché la Germania sia ammessa alla Società delle Nazioni; un mondo pieno di odio che corre verso il baratro di una seconda guerra mondiale. Oh, è davvero un mondo incredibile, pure, grazie alle tue ipotesi, ho creduto potesse essere reale, tanto da temere che questo sia un sogno e quello il mondo vero.
Senza rendermene conto guardai l’ora, e mio figlio fece lo stesso: — Dolf! — esclamò alzandosi. — Spero che le mie stupide chiacchiere non ti abbiano fatto perdere…
Anch’io balzai in piedi…
— No, no, figliolo — mi sentii dire con voce un po’ incerta — però devo affrettarmi se non voglio perdere l’Ostwald. «Aufwiedersehen, mein Sohn»…
E mi lanciai di furia, come uno spettro che vola attraverso l’aria, lasciandomi alle spalle mio figlio. Nell’agitazione che mi aveva preso, mi pareva che il locale vibrasse, diventando a tratti più luminoso e più buio, come una lampadina dal sottile filamento di tungsteno che sta per scoppiare e polverizzarsi…
Nella mente sentivo una voce ripetere, con tono pacato ma che non lasciava speranza: «Le luci dell’Europa si stanno spegnendo. Non credo che verranno riaccese nel corso della mia generazione…».
A un tratto l’unica cosa importante al mondo, per me, fu di arrivare in tempo per potermi imbarcare sull’Ostwald. Questo, e solo questo, mi avrebbe dato la conferma che vivevo nel mondo reale, non in sogno. Avrei toccato l’Ostwald, non ne avrei solo parlato…
Mentre passavo correndo fra le statuette di bronzo, mi parve che si rattrappissero, che le facce si trasformassero in ghigni di vecchie streghe… quattro maligni coboldi che sogghignavano fissandomi, perché sapevano, sapevano…
Alle mie spalle, intanto, avevo scorto una figura alta e scheletrica vestita di nero…
Il corridoio che mi si apriva davanti era stranamente breve e finiva in un muro. La sala d’aspetto non c’era più…
Aprii la porta delle scale e salii a quattro a quattro i gradini come se avessi avuto vent’anni e non quarantotto…
Alla terza rampa mi arrischiai a voltarmi… una rampa più in basso c’era il mio sinistro inseguitore ebreo…
Spalancai la porta che dava accesso al centoduesimo piano. Qui almeno, pensai, c’era il cancello d’argento dell’ascensore della torre, con la scritta «Zum Zeppelin». Finalmente avrei raggiunto l’Ostwald.
Ma il cancello era un semplice cartoncino bianco, e la scritta, su una comune porta di metallo, diceva: «Fermo per manutenzione».
Mi gettai contro la porta tentando di aprirla, strizzando gli occhi perché non riuscivo a mettere a fuoco la vista. Quando finalmente riuscii a vedere, anche la porta e il cartello erano scomparsi e io stavo graffiando il muro.
Qualcuno mi toccò il braccio, e mi voltai di scatto.
— Scusatemi — disse premuroso il mio ebreo. — State forse poco bene? Posso fare qualcosa?
Scossi la testa, non so se per dire di no o per snebbiarmi. — Cerco l’Ostwald — balbettai con un filo di voce, ansimando per la salita. — Lo Zeppelin — spiegai, e vidi che non capiva.
Forse sbaglio, ma mi parve di scorgere un lampo di segreta gioia brillare in fondo ai suoi occhi, sebbene l’atteggiamento premuroso restasse immutato.
— Oh, il dirigibile — disse, con una voce che mi pareva troppo zuccherosa. — Volete dire l’«Hindenburg».
«Hindenburg»? ripetei fra me. Non esistevano Zeppelin con quel nome. O sì? Che mi fossi sbagliato? Avevo la mente annebbiata ma tentavo disperatamente di assicurarmi che ero io, io nel mio vero mondo… «Bin Adolf Hitler, Zeppelin Fachman»…
— L’«Hindenburg», in ogni caso, non attracca mai qui — stava dicendo l’ebreo — anche se una volta si parlò di fare dell’Empire State la stazione ormeggio dei dirigibili più grandi. Forse ne avete sentito parlare, e credevate… Ma è evidente che non sapete ancora della tragedia — continuò con una sollecitudine che mi riusciva insopportabile. — Spero che non cerchiate l’«Hindenburg» perché a bordo c’era qualche persona a voi cara. Fatevi forza. Poche ore fa, mentre stava per ormeggiarsi a Lakehurst, nel New Jersey, l’«Hindenburg» si è incendiato ed è andato distrutto in pochi secondi. Le vittime sono una quarantina. Fatevi forza — ripeté.