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— Ma l’«Hindenburg», cioè l’Ostwald — obbiettai — non si può incendiare. È uno Zeppelin a elio.

— Oh, no — mi contraddisse l’ebreo. — Non sono uno scienziato ma so che l’«Hindenburg» era pieno di idrogeno… tipico della noncuranza dei tedeschi verso i rischi. Meno male comunque che non abbiamo venduto l’elio ai nazisti.

Lo fissai agitando a fatica la testa in un debole tentativo di diniego, ma lui stava già pensando ad altro, perché disse: — Scusatemi, ma mi pare di avervi sentito fare il nome di Adolf Hitler. Forse vi hanno già detto che gli somigliate. Se fossi in voi, mi taglierei i baffi.

Mi sentii invadere da una furia cieca per questa sciocca e inspiegabile osservazione che era stata pronunciata in tono inequivocabilmente offensivo. Poi vidi tutto rosso, l’ambiente che mi circondava fu scosso da violente vibrazioni e io mi sentii torcere nei precordi. Fu quel senso di torsione che si prova passando fuori del tempo da un universo a un altro parallelo. Divenni un altro uomo che si chiamava ancora Adolf Hitler, come il dittatore nazista, un tedesco americano nato a Chicago che non era mai stato in Germania e non parlava tedesco, che gli amici schernivano per la sua somiglianza con l’altro Hitler e che ripeteva cocciuto: «No, non voglio cambiar nome. Che se lo cambi quel bastardo del Fiihrer oltre Atlantico. Non avete mai sentito raccontare dell’inglese Winston Churchill che scrisse al suo omonimo americano autore de “La Crisi” e altri romanzi, proponendogli di cambiar nome per evitare equivoci, dato che anche l’inglese aveva scritto dei libri? Be’, l’americano gli rispose che l’idea non era malvagia, ma dal momento che lui era maggiore di tre anni, toccava all’inglese cambiare nome. Io la penso esattamente allo stesso modo nei confronti di quel figlio di buonadonna di Hitler.»

L’ebreo continuava a fissarmi con scherno. Stavo per dirgli quel che si meritava, quando provai per la seconda volta quell’irreale senso di transizione. La prima volta mi aveva portato da un universo all’altro, ma la seconda coinvolse anche il tempo: in un attimo solo ero invecchiato di 14 o 15 anni, passando dal 1937 (in questo caso ero nato nel 1889 e avevo 48 anni), al 1973 (ero nato invece nel 1910 e avevo 63 anni). Anche il mio nome era cambiato, ridiventando quello vero (ma lo era?), e avevo un figlio sposato titolare di una cattedra in una università di New York, esperto di storia sociale, elaboratore di brillanti teorie, ma non di quella relativa ai momenti cruciali della storia.

E l’ebreo, quell’uomo alto e scheletrico vestito di nero dai lineamenti semitici, era scomparso.

Portai istintivamente la mano al taschino della giacca, poi frugai all’interno. La tasca non aveva chiusura lampo e non conteneva documenti preziosi, ma solo un paio di vecchie buste su cui avevo scribacchiato qualcosa a matita.

Non ricordo come uscii dall’Empire State Building. Probabilmente presi l’ascensore. Di quei momenti riesco solo a ricordare l’insistente immagine di King Kong che precipitava dalla torre come un gigantesco, grottesco, ma anche pietoso orsachiotto di pezza.

Ricordo che m’incamminai come in trance e vagai per ore lungo le vie di Manhattan impregnate di ossido di carbonio e gas cancerogeni, e quando finalmente tornai in me era il crepuscolo e stavo percorrendo Hudson Street, al limite settentrionale del Greenwich Village. Avevo lo sguardo fisso sulla sommità di un altissimo edificio grigio. Credo che fosse il World Trade Center, alto 450 metri. E poi mi trovai davanti la faccia sorridente di mio figlio, il professore.

— Justin! — esclamai.

— Fritz! — rispose lui! — Cominciavamo a preoccuparci. Dove ti eri cacciato? Non che voglia mettere il naso in cose che non mi riguardano. Se avevi un appuntamento con una bella ragazza, non occorre che tu me lo stia a raccontare.

— Grazie — dissi — sono un po’ stanco e ho freddo. Ma no, ho fatto solo un giretto e ci ho messo più tempo di quel che pensavo. Manhattan è cambiata in tutti questi anni che ho vissuto in California, ma non poi tanto.

— Fa fresco davvero — disse lui. — Fermiamoci là in quel locale con l’insegna nera. È il «Cavallo Bianco». Lo frequentava Dylan Thomas e dicono che scrisse una poesia sul muro, ma poi ci hanno passato su una mano di bianco. Però il pavimento è cosparso di autentica segatura.

— Bene — dissi — ma io prenderò solo un caffè, niente birra. Se non c’è caffè, una coca.

Non sono un tipo da «Prosit!», io!