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Fleming si volse, e si avviò rapidamente per il corridoio verso la porta principale. Il luminoso calore lo colpì sul viso, mentre correva attraverso il terreno vuoto tra i fabbricati.

I cancelli del campo erano chiusi. Davanti ad essi stava un piccolo carro armato. Sulla strada principale, un convoglio di autocarri dell’esercito rombava, correndo veloce verso Baleb.

Lentamente, egli tornò verso la zona delle abitazioni, sperando di trovare la Dawnay. Aveva un terribile bisogno di qualche essere normale, in mezzo a tutta quella follia.

La Dawnay non era nella sua stanza, così andò nel laboratorio. Una ragazza araba, avvolta in un camice bianco, era curva su un microscopio.

«La professoressa Dawnay?» disse, in risposta ad una sua domanda. «Non è qui, è andata dal presidente mezz’ora fa. Adesso,» aggiunse con calma, «c’è la rivoluzione.»

7

L’occhio dell’uragano

La visita di Madeleine Dawnay al presidente era stata un atto impulsivo, risultato da una discussione con Kaufmann. Il tedesco gironzolava sempre attorno allo stabilimento, in cerca di qualsiasi informazione, anche minima, che potesse ingraziargli i superiori. Sebbene tutto il gruppo dei dirigenti fosse in teoria composto da impiegati del governo dell’Azaran, era la Intel, in pratica, a prendere le decisioni. Di conseguenza Kaufmann, come principale rappresentante della Intel regolarmente in carica, era considerato dai funzionari come un ufficiale di collegamento.

Gli esperimenti biochimici della Dawnay erano stati perfezionati abbastanza da poter essere messi alla prova sul terreno. Gli studi fatti sul suolo avevano fatto pensare che un’area costiera, vicina al Golfo Persico, sarebbe stata la più adatta; la Dawnay, tuttavia, voleva analizzare anche la striscia toccata dalle maree per accertarsi degli effetti che il vento ed il mare avevano avuto sulla terra. Durante una delle visite di Kaufmann nel suo laboratorio, gli aveva quindi domandato di organizzare per lei una serie di spostamenti, convinta che si trattasse di un ordinario problema di lavoro.

Il tedesco si era immediatamente insospettito. Ne aveva chiesto la ragione, e l’ovvia replica di lei, che non l’avrebbe capita, sembrò irritarlo.

Ma Madeleine sapeva essere molto ostinata, quando aveva deciso. Perciò insistette, dicendo che se doveva completare il suo lavoro, la cosa era necessaria. Kaufmann aveva risposto borbottando che avrebbe dovuto chiedere un permesso governativo.

«Benissimo,» aveva detto la Dawnay, «potete fare un salto in macchina a chiederlo subito, non vi pare?»

Kaufmann si era accigliato. «In questo momento è assolutamente impossibile.»

Questo era più di quanto Madeleine fosse disposta a sopportare. Si tolse la giacca ed appese il cappello da sole all’attaccapanni. «Se lei si diverte a mettere degli ostacoli ridicoli, io stessa parlerò al presidente.»

«Non conterei troppo sul presidente,» disse Kaufmann, «ma, comunque, ci vada pure, se vuole.»

Si avviò verso il cancello principale, per cercarle un’automobile. Quando la macchina arrivò, le aprì la portiera con studiata cortesia.

Durante il breve tragitto verso il palazzo del presidente, l’irritazione di Madeleine si placò, tuttavia le tornarono in mente le pessimistiche opinioni di Fleming su tutto l’insieme dell’organizzazione. Prese quindi la decisione di discutere con il presidente qualcosa di più delle gite sulla costa. Dopotutto, si disse, egli era a capo di uno stato, e, se ci fosse stata una sfida, la Intel non avrebbe potuto riuscire, più di quanto non fossero riuscite tutte le altre enormi compagnie petrolifere in una mezza dozzina di piccoli staterelli.

Le strade sembravano deserte, ma questo non attrasse la sua attenzione in modo particolare. Ella era stata nella capitale così di rado, che non aveva il modo di fare un paragone. La macchina rallentò davanti ai cancelli del palazzo, fino a che una sentinella non fece cenno all’autista di avanzare. L’uomo non sembrava interessato. La Dawnay scese dall’auto e passò attraverso il portico senza porte.

Un arabo con la barba, nel costume nazionale, le si inchinò e portò le mani alla fronte in segno di saluto. Il palazzo era bello, molto antico, e intatto da ogni tentativo di riparazione degli archi cadenti e della filigrana di pietra.

Con una certa incongruenza, il vecchio arabo prese il microfono del telefono interno fissato al muro, dietro un pilastro. Dopo aver mormorato qualche parola, tornò verso Madeleine, avvertendola in un inglese zoppicante che il suo padrone l’avrebbe vista subito.

Un ragazzetto negro arrivò saltellando dalle scale, la salutò con un sorriso, e con una dolce voce di soprano le chiese di seguirlo. Arrivarono al primo piano, attraverso un labirinto di passaggi, silenziosi nella pace di lunghi anni. Il ragazzo bussò ad una grande porta doppia, poi la spalancò.

Il presidente avanzò verso la Dawnay con la mano tesa. La sua faccia rugosa, pensò lei, era quella di un uomo molto vecchio, più vecchio di quanto si sapeva che fosse. Ma i suoi occhi erano vivaci ed intelligenti, ed egli appariva meticolosamente pulito e ordinato nella persona, con la barba tagliata accuratamente e le grandi, sensibili dita morbide e gentili quando stringeva la mano. La nota discordante in lui era l’abito occidentale — una giacca ed un gilé ben tagliati, ma di stile molto vecchio, del genere di quelli che gli aristocratici inglesi portavano per il fine-settimana in campagna circa cinquant’anni fa. La Dawnay immaginò un qualche sarto londinese che accuratamente ripeteva l’ordinazione conservata dall’originale, negli anni prima del 1914.

La cortesia di lui era gradevolmente antiquata, come la sua apparenza. Felice di poter intrattenere una signora inglese, le spiegò che stava guardando i propri ricordi» fotografici, e che sperava non le sarebbe dispiaciuto vederne qualcuno.

«La fotografia è il mio hobby,» disse, «un modo come un altro per avere dei ricordi del mio paese — del suo popolo, dei suoi ricchi tesori archeologici e storici e, naturalmente, dei miglioramenti che — con l’aiuto di Allah — ho potuto realizzare.»

Il ragazzo negro era già vicino al proiettore. Ad un cenno del suo padrone, spense le luci centrali del soffitto, e cominciò. La Dawnay frenò la propria impazienza facendo qualche osservazione pertinente ed educata, mentre il suo ospite spiegava con cura ogni fotogramma. Finalmente, lo spettacolo finì. Il ragazzo riaccese le luci e fu mandato via.

Il presidente prese posto in una sedia di fronte a lei, infilando le mani nelle tasche. «E ora,» disse, «perché ha voluto vedermi?»

La Dawnay prese allora a ripetere con voce intensa le parole che si era detta tutto il tempo, mentre guardava le fotografie. Sperò di essere convincente, obiettiva ed onesta. Gli disse dell’origine del progetto del calcolatore, degli esperimenti biochimici che avevano culminato nella creazione della ragazza, e, infine, delle ragioni per le quali Fleming aveva progettato la distruzione della macchina in Scozia.

Quando ebbe finito, il presidente rimase silenzioso per qualche minuto. «Per tutto ciò io ho soltanto la sua parola,» rispose poi tranquillamente, «e sono cose, come potrà capire, in un certo senso difficili da accettare; o, forse, dovrei dire: da capire.»

«Mi dispiace di non poter essere più chiara di così, vostra Eccellenza. Ci sono molte cose di noi stessi, che non comprendiamo. Il professor Fleming aveva sempre sospettato i propositi del calcolatore.»

«E lei?»

Ella ponderò la risposta. «Io penso che vi siano modi giusti e modi sbagliati di usarlo,» disse finalmente.

Egli le lanciò un’occhiata. «E noi lo stiamo usando in quello sbagliato?»

«Non voi, ma la Intel.»

«Siamo nelle loro mani,» sospirò il presidente come un uomo molto vecchio e stanco; «sono tempi molto difficili.»