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«Ha ragione,» disse Fleming, «non si possono trasmettere simili cose; però si possono imporre. Questa era infatti l’intenzione del calcolatore, poi di Andromeda, ed ora della Gamboul. Ne potrei anche descrivere le conseguenze. Quanto a me, ho dato un’occhiata a quella descrizione.»

Abu esaminava pensosamente il proprio bicchiere vuoto. «Lei crede a quanto ha detto? In che modo descriverebbe questa visione?»

«Dice che l’umanità avanza su di una lunga strada, e che forse è troppo lunga. Potrebbe succederci di distruggere noi stessi, prima di muovere il prossimo passo.»

«Ma se possiamo avere l’aiuto di un’intelligenza superiore ed evitare l’errore,» protestò Abu.

«Sarebbe la stretta di mano della morte. L’amico che sa meglio di te quello che è bene per te.» Fleming puntò un dito verso la piccola finestra, sul panorama del deserto che avevano attraversato con la macchina.

«Lei avrà sentito parlare della pax romana,» disse, «la calma della desolazione lasciata dalle legioni romane, dopo aver forzato i barbari ad accettare la loro idea del diritto. Questo è il genere di’ pace per cui lavoriamo, Abu, amico mio. Personalmente, preferirei che ci aprissimo la strada attraverso errori, ma da soli.»

«Distruggendoci?»

«No!» gridò Fleming, «se qualcosa ci distruggerà, sarà una cosa mandata da fuori. Attraverso il calcolatore.»

«Non ne ha le prove,» disse Abu ostinato.

Lemka guardò prima uno poi l’altro. «Dovresti capire quando un uomo è nel giusto ed aiutarlo,» disse al marito.

Abu la fissò, ma Lemka sostenne lo sguardo, e lentamente egli sorrise. Goffamente, fece scivolare una mano tra quelle di lei. «Ci proverò,» disse piano. Si volse a Fleming. «Lunedì, cercherò di avere un colloquio con Mam’selle Gamboul.»

Fleming lo ringraziò, domandandosi dubbioso se questa piccola manovra priva di importanza avrebbe portato qualche differenza. Si scosse con un certo sforzo. «Bene,» disse, «penseremo alle cose da dire, le cose che possono fare appello alla sua coscienza, se ne ha una. Ma tutto questo non è gentile verso sua moglie. Dopotutto, siamo in vacanza.»

L’amicizia dei due uomini crebbe e divenne più calda, durante le poche ore che passarono lontani dalla tensione del campo. La domenica mattina, Abu portò Fleming ad esplorare le rovine del tempio. Dovettero abbreviare la passeggiata, perché il vento era diventato molto più forte del giorno prima, e faceva precipitare piccole ma pericolose cascate di sassi e di roccia dallo strapiombo alle spalle del tempio. Fleming spiegò ad Abu la teoria della Dawnay sull’origine di quel tempo anormale. Abu poteva accettare questa tesi, perché aveva già visto qualche risultato dei calcoli della macchina sui batteri del mare. Promise che avrebbe cercato di spiegarlo alla Gamboul.

Il lunedì seguente, i due uomini e la guardia tornarono al campo partendo all’alba, avendo ormai imparato che il sorgere del sole ed il suo tramonto erano gli unici momenti in cui il vento si calmava. Mentre scendevano a zigzag dal fianco della montagna verso il piano, udirono un boato lontano, e videro una fiammata salire improvvisamente verso il cielo.

Abu chiese un colloquio con la Gamboul appena rientrato in servizio. Gli fu detto di andare al fabbricato degli uffici alle undici precise. La Gamboul lo salutò quasi con effusione. «Bene, dottor Zeki,» disse, «lei è il primo a sapere che stamani abbiamo collaudato il prototipo del missile. È stato un completo successo. Adesso siamo alla pari con la Gran Bretagna, in questo campo.» Sorrise piena di aspettativa. «E lei ha altre buone notizie da darci?»

«Sì, Mam’selle,» rispose Abu, «ma desidero chiederle il permesso di parlarle d’altro.»

«Che cosa vuole?» domandò la Gamboul, mentre la sua cordialità svaniva, subito sostituita dal sospetto.

«Vengo per conto del professor Fleming. Egli è convinto che le condizioni del tempo in Europa ed in America, e persino qui, nascano in qualche modo dal calcolatore. Dal messaggio.» Si fermò, momentaneamente intimidito dallo sguardo di implacabile ostilità con cui ella lo stava fissando.

«Il professor Fleming vorrebbe che fosse concesso alla professoressa Dawnay il permesso di mettersi in contatto con l’International Weather Bureau.»

«No!» la Gamboul batté il pugno sul tavolo come un uomo. «Quello che dice non ha senso.»

«Ma se il messaggio…»

«Io conosco il messaggio! Quello che ci dice di fare è perfettamente chiaro. E il tempo non fa parte della missione della quale il messaggio ci ha incaricato.»

Abu vacillò un attimo. «Se lei volesse soltanto vedere il professor Fleming…» cominciò.

Janine gli rispose quasi urlando. «Non mi interessa! Fleming non ha nulla da dirmi che mi interessi. Ha capito?»

Abu si ritrasse fino alla porta.

«Grazie, Mam’selle,» mormorò.

Quando la porta si fu richiusa, la Gamboul si chinò sul citofono davanti a sé. Il bottone rosso era già stato premuto.

«Herr Kaufmann,» sussurrò, «ha sentito quello che Zeki aveva da dirmi? Bene! Lo faccia sorvegliare ininterrottamente.»

9

Depressione

Osborne guardò dal finestrino del treno la confusione di Londra. Il suo braccio sinistro era ancora appeso al collo, per evitare lo sforzo dei muscoli pettorali, che il gunman di Kaufmann aveva colpito. Per il resto non stava troppo male, la stessa ferita principale stava rapidamente guarendo.

Se lui si era salvato miracolosamente, altrettanto era successo per Londra. I danni dell’uragano notturno non erano gravi come aveva creduto, da quanto si poteva vedere dal treno, che si muoveva lentamente. Le antenne della televisione erano piegate in modo grottesco e su una quantità di tetti si aprivano come sbadigli i buchi dai quali erano stati strappati i comignoli. Osborne era schiacciato contro il vetro dalla pressione degli altri passeggeri che stavano in piedi. Il viaggio da casa sua, e cioè da Orpington, aveva già preso più di due ore. Ma non poteva lamentarsi se il treno era lento, dato che non era nemmeno segnato sull’orario. Con tutte le linee elettriche a terra o fuori uso, funzionavano soltanto i motori diesel dei treni provenienti dalla costa. Il suo stava andando avanti tra fermate e partenze continue, passando di binario in binario con segnalazioni a mano.

Essendo un uomo prudente, Osborne si era alzato molto presto, perché sapeva che dopo una notte come quella passata, il viaggio sarebbe stato difficile. Ma ora cominciava a preoccuparsi. La riunione al Ministero era stata fissata per le 10 e 30. Tutti gli altri, che vivevano nei dintorni di Whitehall, sarebbero di certo stati puntuali.

Il treno si fermò per dieci minuti a sud del fiume. Osborne vide la centrale elettrica di Battersea, grande e solida come sempre, con il solito pennacchio di fumo bianco che, uscendo dalla ciminiera, veniva soffiato via da ventate improvvise. Quasi impercettibilmente, ripartirono e continuarono ad avanzare. Più avanti, le segnalazioni elettriche erano in funzione ed il treno entrò lentamente dentro la stazione di Charing Cross. Subito gli altoparlanti cominciarono ad avvertire che dal tetto cadevano vetri rotti, ma furono ignorati dalla ressa dei viaggiatori che cambiavano treno, e che, esasperati, si spingevano verso le uscite.

Fuori, nello Strand, la vita sembrava abbastanza normale. Un grande cartello pubblicitario era caduto, ma il traffico continuava, seppure rallentato. Al centro di Trafalgar Square era stato fatto un recinto con delle corde. Nelson guardava ancora tutta Londra dalla sua colonna ma, evidentemente, le autorità avevano preferito prendere delle precauzioni.

Osborne arrivò a Whitehall. Qualche asse era inchiodata dove le finestre erano state staccate dal vento, ma non c’era altro. Il Big Ben se ne stava intatto, proclamando che erano le 10 e 21. Osborne affrettò il passo; sarebbe arrivato appena in tempo.