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La stampatrice di uscita era all’opera, ed Abu stava studiando le cifre che ne uscivano.

«Non ho potuto fare nulla,» disse l’arabo senza guardarlo, «e ora sono sospettato anch’io.»

Fleming si chinò, fingendo di leggere i numeri. «Non credo che ci sia nulla che qualcuno di noi possa fare… oltre ad avvertire la gente.»

Abu strappò la striscia ormai completa e si raddrizzò. «Vada a casa mia questa sera,» sussurrò, «cerchi di evitare le sentinelle. Io non posso venire. Sono sorvegliato. Lemka le dirà.»

Prima che Fleming potesse fargli altre domande, Abu se ne era andato rapidamente verso l’ufficio dell’archivio. Fleming seguì con aria pensosa la sua ritirata.

La Dawnay arrivò dall’altra parte del corridoio. «Ho visto attraverso la porta a vetri Abu Zeki che cospirava con te,» disse, «e perciò mi sono tenuta indietro. Di che si trattava?»

«Non lo so,» ammise Fleming, «forse di una trappola; ha visto la Gamboul stamattina. Oppure potrebbe trattarsi anche di una caccia all’anitra selvatica. Ma tanto vale buttarsi nella mischia. E quale bella novità porti tu?»

«Ho capito cosa sono le bestioline.»

«Cosa sono?»

«Un batterio sintetizzato artificialmente. Se sapessimo come agisce, avremmo un’idea delle cose che ci minacciano.»

«Forse André?…» Fleming esitò.

La Dawnay sorrise tristemente. «Ci ho provato. Dice che il calcolatore non può essere utile; non sa niente del batterio.»

Si incamminarono verso la porta, per allontanarsi da una sentinella che si era fermata vicino a loro. «Ormai sono ridotto ad attaccarmi ad ogni speranza. Perciò, tanto vale che provi ad entrare nella trappola del nostro amico Abu, se così è.»

Madeleine gli afferrò il braccio. «Stai attento, John,» lo supplicò, «se tu vai via…»

«Io torno sempre a galla,» ghignò lui.

Uscire dal campo non fu facile. Fleming dovette aspettare che fosse diventato scuro, e non era sicuro del posto dove Abu aveva detto di aver lasciato la macchina. Ma fu aiutato dal tempo; il vento, dopo aver soffiato qualche violenta folata carica di sabbia durante la giornata, si era trasformato in una vera tempesta. Le sentinelle si erano tutte rifugiate dietro i pilastri e i muri dei fabbricati, al riparo dalla sabbia che turbinava.

I suoi occhi si abituarono all’oscurità del cielo senza luna, poco dopo che fu uscito dal campo, arrivando nella zona dei servizi. L’automobile di Abu era parcheggiata in mezzo a molte altre. La chiave dell’avviamento era infilata nel cruscotto, come Zeki aveva promesso. Egli mise in moto e si mosse non troppo velocemente, per non insospettire qualche sentinella.

Seguire la strada fu difficilissimo. Si rammaricò di non aver preso nota più attentamente della zona, durante il viaggio del fine-settimana. Per due volte uscì di strada a causa di colpi di vento particolarmente violenti, mentre dense nubi di sabbia lo colpivano; ma la piccola macchina italiana a motore posteriore era l’ideale per quel tipo di terreno. Arrivò alla casa di Abu in un paio di ore.

La porta si aprì in uno spiraglio, al suo colpo di nocche. Fleming si fece riconoscere e Lemka gli disse di entrare alla svelta.

Una donna anziana in costume arabo era seduta in un angolo. Si tirò il velo sulla parte inferiore del volto, ma i suoi occhi rimasero cordiali. Sulle ginocchia, teneva un bambino.

Fleming lo guardò. «Suo figlio?» domandò a Lemka.

«Sì, si chiama Jan,» rispose lei orgogliosamente. «Il professor Neilson è stato il suo padrino. Lei ha figli?»

«No.» Si sentiva goffo, con questa giovane donna così franca e diretta.

«Vorrebbe un po’ di caffè?» domandò Lemka, poi parlò in arabo alla madre. La vecchia depose il bambino nella culla e andò in cucina.

«Di cosa si tratta?» domandò Fleming quando si furono seduti, Lemka vicino alla culla, che dondolava piano. «Abu non ha potuto dirmi nulla.»

«Sono stata io a dirgli di farla venire,» disse Lemka tranquillamente. «Vede, io ho un cugino che è operatore radio sugli aerei da trasporto della Intel. È sulla linea europea.»

«Volano ancora laggiù?»

Ella annuì. «È difficile, ma riescono a passare. Potrebbe essere di qualche aiuto, se la mettesse in contatto con gli scienziati inglesi? Mio cugino non potrebbe portare messaggi. Tutto l’equipaggio è perquisito prima di partire. Ma mi ha promesso che tenterà.»

Fleming divenne pensieroso; sembrava proprio una trappola.

«E perché lo farebbe?» domandò.

La madre di Lemka entrò con il caffè, lo versò in due tazze e si allontanò silenziosamente, sedendosi sul pavimento nell’angolo opposto. Lemka la guardò, poi guardò suo figlio. «Lo farebbe per me, per la famiglia; per il piccolo Jan.»

Era una risposta semplice, umana — di quel genere di valore umano che mancava in quel mondo da incubo. Fleming le credette.

«Va a Londra? Bene; cosa potrebbe portare, una lettera?»

Lemka annuì. «È pericoloso, sa. Le persone vengono messe in prigione per simili cose, a volte perfino uccise.»

«La ringrazio,» fu tutto quello che Fleming trovò da dire, «domanderò alla professoressa Dawnay cosa si può mettere di utile nel messaggio.» Si alzò per andarsene.

Lemka gli si avvicinò. «Che cosa succederà?» sussurrò.

Fleming scostò la tendina della minuscola finestra. Riparata dalla roccia a picco, l’aria era limpida e senza sabbia, e le stelle brillavano nella volta scura del cielo come una miriade di punti luminosi.

«Ci sono due cose,» egli disse, per metà a se stesso; «la prima è che quell’intelligenza di lassù, in Andromeda, che ha mandato il messaggio, voleva prendere contatto con qualsiasi forma di vita avesse trovato nella galassia — in una specie di modo evangelico.» Guardò verso Lemka e sorrise. «Si ricorda cosa abbiamo detto di san Paolo?»

Lemka annuì.

«L’intelligenza è una specie di missionario nello spazio,» continuò lui; «quando trova una vita che risponde, la converte, la conquista. Lo ha tentato prima, forse, durante parecchie migliaia di anni, in mondi diversi — forse con successo — ed ora ha fatto la prova qui, attraverso la ragazza Andromeda, per ciò che essa chiama il nostro bene. Questa è una cosa.»

«E l’altra?»

«Quando essa trova un intelletto che le è ostile, lo distrugge, e, se può, lo sostituisce con qualcosa di diverso. Questo è quello che sta accadendo adesso, perché noi l’abbiamo combattuta. O, piuttosto, perché io l’ho combattuta. Ed ho perso.» La voce gli mancò. «Ecco perché, Lemka, dovrà dire che ho condannato l’intera razza umana.»

«Non ancora,» mormorò lei.

«Non ancora, forse,» annuì Fleming; «c’è anche la possibilità che la professoressa Dawnay abbia qualcosa per suo cugino.»

Era mattina presto quando Fleming tornò al campo. Entrò apertamente attraverso il cancello principale, sotto i riflettori, salutando cordialmente con la mano la sentinella. L’uomo gli sorrise di rimando. Era chiaro che, per quanto riguardava gli occidentali, le guardie erano state istruite a fermarli se tentavano di uscire, ma non se stavano entrando.

Fleming aspettò fino che il lavoro fu cominciato nel campo, prima di andare dalla Dawnay. Qualsiasi cosa avrebbero messo nel messaggio, doveva essere limpida, fattuale, e comportare qualcosa di più di una richiesta di aiuto.

Nel laboratorio, con la Dawnay, c’era Abu Zeki. Sembrò sollevato nel vedere Fleming, ma non disse nulla.

La Dawnay era chinata sopra un grande recipiente di metallo, che, aveva fatto installare sotto la lunga finestra bassa. Il coperchio di vetro era stato abbassato e parecchi tubi di gomma e fili elettrici passavano attraverso fori sigillati. Erano tutti collegati a strumenti di registrazione, uno dei quali Fleming riconobbe essere un barografo. Sul fondo del recipiente c’erano due o tre centimetri di un fluido opaco.