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Subito dopo aver visto Kaufmann nelle mani dell’Interpol, Fleming ebbe un’esperienza che credette di non poter dimenticare mai più. Aveva raccolto le poche cose di Abu, nella scrivania del suo ufficio, ed era andato al villaggio di Lemka, ben felice che un funzionario del presidente fosse già andato a portare la notizia della morte di Abu a sua moglie.

C’era molto silenzio nel cortile rovinato della casa. Del bucato, su di una corda, fluttuava nel vento. La culla del bambino stava all’ombra di un muro scrostato. Una spirale di fumo spariva nel cielo, uscendo da alcune fascine su di un fornello improvvisato. Fleming chiamò verso la casa, ed attese fino a che Lemka non apparve sulla soglia in ombra della porta, al rumore dei passi sull’impiantito.

«Sono venuto per dire…» cominciò Fleming.

«Non mi dica che le dispiace,» lo interruppe lei, andando verso la biancheria con il viso rivolto altrove. «E non mi dica che non è stata colpa sua.»

«Io non volevo coinvolgere suo marito,» mormorò lui.

Lemka si volse con rabbia. «Ci ha coinvolto tutti.»

«Io gli volevo bene, sa. Molto. Sono venuto per vedere se c’è qualcosa che posso fare,» implorò lui.

Lemka stava lottando con le lacrime. «Ha fatto abbastanza; ha salvato il mondo — dalla sua stessa follia. E così adesso pensa che tutto vada bene. Come potete voi — tutti voi — essere così arroganti? Voi non credete in Dio. Non accettate la vita come un suo dono. La volete cambiare, perché ritenete di essere più grandi di Dio.»

«Ma io ho soltanto cercato di fermare…» La voce di Fleming morì.

«Ha cercato, e noi abbiamo sofferto. La ragazza — la sua ragazza, aveva ragione quando diceva che lei ci ha condannato. Perché non torna ad ascoltarla?»

«Sta morendo.»

«Ha ucciso anche lei?» Lemka lo fissò con più compassione che odio. Fleming non riuscì a rispondere. Depose il piccolo pacco con le cose di Abu ai piedi della culla, e se ne andò.

Quando fu di nuovo al campo, scivolò come un intruso verso il suo bungalow per una strada secondaria. Prese dei fogli stampati dal calcolatore ed alcuni calcoli da un cassetto e cominciò a studiarli.

Li aveva messi da parte quando la Dawnay si era rifiutata di aiutarlo, perché sentiva di non poterli risolvere da solo. Semplicemente, non ne sapeva abbastanza di biochimica. Per un periodo che gli era sembrato lungo come una vita, aveva evitato la stanza di André, perché non aveva più il coraggio di guardare in faccia la sua lenta agonia, e, ormai, aveva rinunciato all’idea che Madeleine avesse il tempo, l’energia o la voglia di mettersi ad aiutarlo.

La Dawnay ora era installata nell’edificio degli uffici, al centro di una rete di collegamenti rapidamente improvvisati via radio e telegrafo, e dirigeva e consigliava tutti gli scienziati in lotta, in ogni parte del mondo. Non sapeva nemmeno come ce la facesse, né se dormisse qualche volta; non la vedeva mai.

Rimase seduto nella sua piccola stanza, fissando abbattuto la massa delle cifre. Quindi aperse una bottiglia di whisky, e ricominciò a tentare di trovare nell’ammasso di cifre un nesso qualsiasi. Era quasi mezzanotte, quando si avviò, un poco malfermo sulle gambe, verso il laboratorio, attraverso il campo deserto.

Essendo terminati gli esperimenti, i grandi recipienti che erano serviti per la coltura erano stati trasportati nell’edificio degli uffici, dove c’era posto abbastanza per il reggimento di assistenti che ora la Dawnay poteva dirigere. Il laboratorio dove tutto era cominciato era vuoto e senza vita. Cercò a tentoni un interruttore; la luce si accese. Quasi dovunque l’elettricità era stata rimessa in funzione il giorno precedente.

Comprendendo a malapena da quali recessi del suo cervello o ricordi dei suoi giorni di studente venivano, o quanto fossero ispirati dal whisky puro, Fleming cominciò ad accorgersi che la soluzione di cui aveva bisogno cominciava a delinearsi nel suo cervello. In modo lento e faticoso, ed anche un tantino ubriaco, cominciò a ricavare una sintesi chimica dalla massa di numeri che aveva scritto.

Le sue esperienze di lavoro riuscirono appena a mantenerlo nel giusto, ma presto dovette rendersi conto con dolore che i meccanismi più comuni ed ordinari della chimica pratica erano al di là delle sue capacità. Gli mancava pazienza e precisione; ma l’ostinazione ed il ricordo degli occhi compassionevoli di Lemka lo spinsero avanti. Non si accorse che il sole del mattino aveva offuscato la luce delle lampade, né che la porta veniva aperta.

«Che razza di disordine!» disse la voce della Dawnay. «Guarda il mio laboratorio! Cosa diavolo credi di star facendo?»

Fleming si lasciò cadere dall’alto sgabello davanti al banco e si stirò.

«Ciao, Madeleine,» disse. «Ho cercato di sintetizzare questa cosa per André. La maggior parte degli anelli della catena sembrano essersi riuniti. Ma i vari collegamenti minori non funzionano neanche un po’.»

La Dawnay scorse con occhio esperto i calcoli di lui, in mezzo alle carte sparse dovunque, sul banco e sulle sedie. «Non mi sorprende,» disse, «sei riuscito a fare un magnifico pasticcio. È meglio che lasci fare a me.»

«Credevo che non avessi tempo. Credevo che fossi troppo occupata a mettere a posto il mondo.»

Madeleine ignorò la battuta, continuando a guardare le equazioni.

«Ammettiamo,» disse lentamente, «che se c’è una deficienza chimica nel suo sangue o nelle ghiandole endocrine deve pure esistere una compensazione chimica, però non sappiamo se le cose stanno così.»

«Ma deve essere così, non è vero?» suggerì lui. «Il nostro capo elettronico lo ha detto.»

Madeleine rifletté un poco. «Perché vuoi farlo, John?» chiese. «Tu hai sempre avuto paura di lei, l’hai sempre voluta togliere di mezzo.»

«Ma adesso voglio che viva.»

Madeleine lo fissò pensierosa, mentre un leggero sorriso le sfiorava gli angoli delle labbra. «Forse perché tu sei uno scienziato e vuoi sapere che cosa conteneva realmente il messaggio? Non riesci a sopportare il fatto che la Gamboul lo sapeva e tu no? È questa la vera ragione, vero?»

«Hai veramente delle buffe idee e vecchie idee,» sorrise lui.

«Forse,» rispose Madeleine, «forse.» Prese un camice da un gancio alla parete. «Vai a fare colazione, John. Poi torna qui. Ho del lavoro da farti fare.»

Lavorarono insieme, collaborando in modo perfetto e del tutto istintivo, ed evitando accuratamente qualsiasi discussione di tipo morale o emozionale. Erano come nemici costretti a vivere nella stessa cella. Non parlarono di niente altro che non fosse l’enorme complicazione del lavoro e, per dieci giorni ed altrettante notti, andarono avanti. Le notizie sul miglioramento della situazione mondiale e sulla pressione barometrica, i bollettini meteorologici che riferivano una diminuzione nella violenza del vento venivano da loro appena notati, e subito dimenticati.

A causa dei propri timori di fallimento, Madeleine non aveva nemmeno detto a Fleming che, ancora prima di aver controllato il risultato del suo lavoro, aveva già cominciato a fare le iniezioni ad André. L’etica professionale non la preoccupava, ora. La vita di André si avvicinava sempre di più alla fine, in ogni caso.

Fleming continuava ad evitare la stanza della ragazza malata. Diceva a se stesso che non l’avrebbe vista fino a che non avesse potuto darle un poco di speranza. Sapeva che Madeleine la visitava regolarmente, ma si tratteneva deliberatamente dal domandarle come stesse.

E la Dawnay, notando il lento miglioramento della sua paziente, non osava credere di essere riuscita. Solamente quando venne il medico, e le ebbe fatto un prolungato e positivo esame dei riflessi muscolari, cominciò ad ammettere anche con se stessa che il quasi impossibile era avvenuto.

Fu la stessa André che chiarì la situazione. «Sto meglio,» mormorò una mattina, mentre aspettava un’altra iniezione, «lei mi ha salvato la vita.»