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«È tutto qui?» Fleming si sentiva come se fosse stato privato di qualcosa.

André volse il viso verso di lui; era lucido di sudore, gli occhi apparivano enormi, le pupille dilatate. «Sì,» sorrise, «è tutto qui. Quelli sono loro. Volevano che vedessimo il loro pianeta. Credevano che sarebbe stato sufficiente. Forse come avvertimento. Forse a mostrare quello che il tempo porterà, e in che modo sopravvivere. Come potremo fare la stessa cosa anche noi.»

Fleming dette un’altra occhiata allo schermo scuro. Per lui quelle forme pietrificate rimanevano chiare e precise nella loro immobilità dietro il vetro. «No,» disse.

«Ti sembra dunque tanto peggio della razza umana?» gli domandò lei, «che vive e si riproduce e lavora e lotta per puro istinto animale? È così che sono tutti gli esseri umani — animali che occupano l’intero loro tempo a lottare per l’esistenza ed a mantenere vivi i loro corpi. E quando la terra diventa troppo affollata c’è un olocausto ed i sopravvissuti ricominciano il ciclo, mentre il cervello non si sviluppa mai.»

«Ah no?»

«Non veramente. Non abbastanza rapidamente. Nel tempo che la terra impiegherà a diventare inadatta per la vita, la razza umana continuerà ad essere composta di piccoli animali in lotta e che muoiono.»

«Se non cambieranno?»

André annuì. «Il cervello dallo spazio potrà guidarci, e noi potremo guidare gli altri. Almeno fin quando riusciremo a mantenere l’autorità che ci dà.»

«E ad imporre quello che vuole farci essere al resto del mondo?»

«Noi possiamo solamente cominciare ad indicare una possibile via,» rispose André, «passeranno milioni di anni prima che la terra…»

«Non ne abbiamo il diritto,» disse Fleming.

«Di usare la conoscenza che abbiamo di quello che potrebbe accadere?»

Discussero a lungo, ma, alla fine, André disse: «E va bene, allora hai deciso davvero? Hai deciso che vuoi distruggere tutto questo?» Agitò espressivamente una mano verso la macchina.

«Sì,» disse Fleming fermo, «ho deciso.» André si alzò e andò verso uno degli archivi. Dal fondo di un cassetto trasse un piccolo rotolo di pellicola e glielo porse. «Che cosa è?» domandò lui, rifiutandosi di toccarlo. «È un rotolo di negativi da immettere. Stampa lo zero su tutta intera la sezione della memoria. Il calcolatore non ha la volontà per fermarlo, adesso. Metti dentro questo film, e, in pochi minuti, non vi sarà più che un ammasso di metallo e vetro.»

Fleming la seguì alla consolle di programmazione. Rimase a guardarla mentre faceva scivolare la pellicola nell’ingresso e faceva scattare la chiusura imbottita. I suoi occhi si levarono verso il bottone rosso sulla consolle dei controlli. Stava per muovere la mano verso di esso per premerlo, quando André, cortese ma ferma, fece schioccare le dita.

«Preferirei che non fossi tu a fare questo,» disse. «Vedi, io so che è uno sbaglio. E preferirei che non fosse tuo.»

Fleming lasciò ricadere il braccio e si allontanò dal pannello. André si chinò sulla consolle di funzionamento e cominciò a scrivere qualcosa sul blocco attaccato da un lato.

«Lasceremo un biglietto,» spiegò, «ma per chi?»

Fleming sogghignò soddisfatto. «Per Yusel.»

«Sì,» disse lei, «per Yusel. Lui metterà in moto il motore della stampatrice d’ingresso del tutto innocentemente, quando vedrà questo.» In grandi lettere a stampatello, scrisse il nome di Yusel. «Adesso portami via, per favore,» sussurrò, «se è quello che vuoi veramente.»

John non si mosse, mentre André gli si avvicinava. Poi, chinando appena la testa, la baciò sulla bocca.

Quando sentì le labbra piene e calde di lei contro le proprie, sentì improvvisamente quanto fosse completa l’umanità della ragazza. Tutta la paura e la tensione dei mesi passati lo abbandonarono, e, per la prima volta, si sentì solo con la donna che voleva.

Allontanò delicatamente la sua bocca da quella di lei, la respinse per tutta la lunghezza del braccio e le sorrise. Quando André gli sorrise di rimando, i pannelli grigi del calcolatore divennero ombre confuse e senza importanza. Fleming rise forte e prese una mano di lei tra le sue.

«Adesso andiamo via. Posso prendere la macchina di Kaufmann. C’è un posto che ti vorrei far vedere.»

André lo seguì senza fare domande. Fuori era scuro e faceva freddo. Il vento era soltanto la brezza notturna del deserto. Nessuna nuvola macchiava la serenità della pallida e pacifica luce di una luna quasi piena.

Nella macchina, André si rannicchiò contro di lui. Fleming guidò diritto per la strada che aveva per lui tanti ricordi. Quando si cominciò ad avvicinare alle montagne, lasciò la strada, non desiderando svegliare la gente del villaggio dove viveva Lemka. Fermò quindi la macchina all’ombra di un grande masso.

Mano nella mano, si arrampicarono per un sentiero da capre, dirigendosi verso la massa bianca delle rovine del tempio. L’aria divenne fredda; entrambi respiravano affannosamente per lo sforzo mentre il loro sangue affluiva al viso e alle mani.

In silenzio, Fleming si arrestò quando i suoi piedi toccarono la grande scalinata di pietra che conduceva al porticato cadente. Tenne saldamente la mano di André, obbligandola a fermarsi.

«Perché sei venuto qui?» sussurrò lei.

«Per respirare,» disse lui, gettando il capo all’indietro, ed inspirando profondamente.

Anche André guardò verso l’alto, la volta del cielo che diventava più scura verso la cresta delle colline, dove la luce della luna arrivava più debole. La Stella Polare luccicava lassù come un punto brillante. Non lontana da essa, un’altra stella tremolava.

«Beta di Cassiopea, è il suo nome,» disse Fleming, sapendo che le loro menti erano talmente all’unisono che sicuramente non c’era bisogno di domandarle se stesse guardando dalla stessa parte. «Un altro suo nome più grazioso è: La Signora della Sedia. Riesci a vederne la forma?»

André rise. «No, non ci riesco.» Continuò a guardare verso l’alto. «Ma adesso so perché mi hai portata qui. Quella luce tra la Stella Polare e la tua Signora della Sedia.»

«Sì,» disse lui, mettendole un braccio protettore intorno alle spalle.

«Andromeda,» sussurrò la ragazza, «la mia madrina.»

«Il posto dove stanno loro, le creature senza movimento, senza occhi; con il solo cervello.» Volse di proposito il capo. «Non ha senso. Pensa alla macchina che ci hanno fatto costruire a Thorness. Ricordi quello che ti ha fatto? Alle tue mani?»

André annuì. «Lo ricordo. Ma se si fosse trattato di qualcosa di molto ragionevole, molto saggio, ti saresti opposto lo stesso?» Lo vide scuotere la testa. «Quindi saresti veramente caduto sotto il suo fascino. Tu e chiunque altro. Proprio come mademoiselle Gamboul.»

«Suppongo di sì.»

«E allora, di cosa hai paura? Rendendola macchina brutale e crudele loro ti hanno obbligato a prenderne il controllo tu stesso. È per questo che abbiamo cambiato i circuiti logici nel modello dell’Azaran. E anche quello era preordinato. Tutto era prevedibile.»

«Anche il microbo dell’azoto?»

«Naturalmente. È successo perché si potesse essere assolutamente sicuri che il controllo sarebbe passato ad altri. Che le decisioni non sarebbero state solo quelle della macchina.»

Fleming era quasi convinto. «Ma perché correre il rischio tanto da vicino? Quasi ci ha tolto di mezzo tutti.»

«Quello è stato un errore di calcolo.»

«Non lasciarti prendere in giro,» sogghignò lui, «quella cosa non ha mai fatto errori.»

«Ne hanno fatto soltanto uno; non avevano fatto i conti con qualcuno come te. Non avevano mai pensato che il primo calcolatore sarebbe stato distrutto, ma solo che ne avrebbero cambiato i circuiti logici. Se tu non avessi fatto quello che hai fatto quella notte, in Scozia, i batteri marini sarebbero stati eliminati molto prima.»

«Ma non ne hai nessuna prova,» protestò lui debolmente.