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Anche lei disse «Aah», ma senza ridere, e solo per riprendere il fiato che pareva bloccarsi in gola; abbassò poi la testa, perché se la sentiva girare. Infine avanzò, passando dinanzi agli artigli, alla lunga bocca priva di labbra e al largo occhio giallo, e salì sulla spalla del drago. Sollevò il braccio dell’uomo. Questi non si mosse, ma certamente era vivo, perché il drago l’aveva portato laggiù e gli aveva parlato. «Su», gli disse Tenar; poi, dopo avergli sciolto la stretta della mano sinistra con cui continuava a tenersi alle squame, aggiunse: «Su, Ged. Vieni…»

L’uomo sollevò leggermente la testa. Aveva gli occhi aperti, ma vuoti. Tenar dovette arrampicarsi sul dorso del drago, graffiandosi le gambe sulle sue scaglie, e staccare la mano destra dell’uomo da una sporgenza ossea, alla base della spina. Lo afferrò per le braccia e lo trascinò lungo i quattro scalini del drago giungendo così a terra.

L’uomo si riprese un poco e cercò di aggrapparsi a Tenar, ma era completamente privo di forze: scivolò quindi sulla roccia come un sacco vuoto, e non si mosse più.

Il drago voltò l’immensa testa e — con un gesto del tutto animalesco — toccò con la punta del muso il corpo dell’uomo, e l’annusò.

Poi risollevò il capo, e, con un forte rumore metallico, anche le sue ali si mossero. Allontanò la zampa da Ged, spostandola verso il ciglio del Precipizio. Poi girò di nuovo la testa verso Tenar e disse, con una voce simile al secco ruggito delle fiamme di una fornace: «Thesse Kalessin».

La brezza del mare frusciò tra le ali del drago, già semiaperte.

«Thesse Tenar», rispose la donna, con voce chiara, anche se un po’ tremante.

Il drago voltò lo sguardo a occidente, in direzione del mare. Si girò con un rumore metallico, tra il cupo sferragliare delle scaglie, poi aprì all’improvviso le ali, si rannicchiò per il balzo e si gettò giù dal ciglio, nel Precipizio, incidendo profondamente la roccia con l’enorme coda. Le rosse ali si abbassarono e si sollevarono un paio di volte, e in pochi istanti Kalessin fu lontano dalla terra, in volo verso l’Occidente.

Tenar continuò a guardarlo finché la sua immagine non fu più grossa di quella di un’oca selvatica o di un gabbiano. L’aria, non più riscaldata dai fuochi del drago, era di nuovo fredda. Tenar rabbrividì. Si sedette sulla roccia vicino a Ged e cominciò a piangere nascondendo il viso tra le mani e gemendo: «Che cosa posso fare? Che cosa posso fare, adesso?»

Alla fine si asciugò gli occhi e si soffiò il naso, si ravviò i capelli e si voltò verso l’uomo steso accanto a lei. Era talmente immobile, cosi tranquillo sulla roccia nuda, che pareva volesse rimanerci per sempre.

Tenar sospirò. Non poteva fare alcunché, ma c’era sempre qualcosa che si doveva fare.

Da sola, non poteva trasportarlo. Doveva chiedere aiuto a qualcuno. E questo significava che doveva lasciarlo solo. Ma le pareva che fosse troppo vicino all’orlo del Precipizio: se avesse cercato di alzarsi, sarebbe potuto cadere, debole e stordito com’era. Come fare, per spostarlo? Tenar parlò e cercò di scuoterlo, ma Ged non reagì. Provò quindi ad afferrarlo per le spalle e, con una certa sorpresa, riuscì a spostarlo; era un peso morto, ma quel peso non era granché. Con decisione, lo trascinò per quattro o cinque passi, allontanandolo dalla roccia e portandolo sulla terra, dove l’erba secca gli offriva una certa protezione. E là dovette lasciarlo. Tenar non poteva correre, perché le tremavano le gambe e aveva ancora il respiro affannoso. Raggiunse il più rapidamente possibile la casa di Ogion, e nell’avvicinarsi chiamò Erica, Muschio e Therru.

La bambina uscì dalla capanna e si fermò, come faceva sempre, in attesa che lei la raggiungesse.

«Therru, corri al villaggio e di’ a qualcuno di venire… qualcuno robusto. C’è un uomo ferito, sul Precipizio.»

Therru non si mosse. Non era mai andata da sola al villaggio, e adesso, combattuta tra l’obbedienza e la paura, non sapeva come fare. Tenar lo capì e chiese: «C’è Zia Muschio? C’è Erica? In tre possiamo portarlo. Ma fa’ in fretta, Therru!» Temeva che Ged, lasciato solo, potesse morire o cadere nel Precipizio; i draghi poi potevano tornare a riprenderlo. Poteva succedere qualsiasi cosa. Tenar sapeva di dover fare in fretta: Selce era morto di un colpo al cuore, mentre era nei campi, e lei non lo aveva assistito. Era stato il loro pastore a trovarlo, disteso vicino al cancello. Ogion era morto, e lei non aveva potuto impedirglielo, non aveva potuto dargli il respiro che gli mancava. Ged era ritornato a casa per morire, e quella era la fine di tutto, lei non poteva fare niente, eppure doveva provare. «In fretta, Therru! Falle venire tutte!»

Si avviò a sua volta verso il villaggio, ma vide la vecchia Muschio arrivare lungo il pascolo, con in mano il massiccio bastone di biancospino. «Mi hai chiamato, cara?»

Con l’arrivo di Muschio, Tenar provò un immediato sollievo. Riprese fiato e riuscì finalmente a riflettere. Muschio non perse tempo a fare domande, ma, nell’udire che c’era un ferito da trasportare, sollevò la pesante coperta, usata di solito per rivestire il giaciglio e che Tenar aveva steso a prendere aria e la portò fino al ciglio del burrone. Lei e Tenar vi avvolsero Ged e cominciarono a trascinarlo verso casa, mentre Erica arrivava trotterellando, seguita da Therru e da Sippy. Erica era giovane e forte; con il suo aiuto poterono sollevare il telo come se fosse una barella e portare l’uomo fino alla casa.

Tenar e Therru dormivano nella nicchia a ponente della lunga stanza. All’altra estremità c’era solo il letto di Ogion, coperto da un pesante lenzuolo di lino. Lì portarono l’uomo, e Tenar gli distese sopra la coperta di Ogion, mentre Muschio mormorava incantesimi protettivi. Erica e Therru la fissarono incuriosite.

«Ora lasciamolo riposare», disse Tenar, conducendole tutte dall’altra parte della stanza.

«Chi è?» domandò Erica.

«Che cosa faceva sul Precipizio?» chiese Muschio.

«Lo conosci, Muschio. Era l’apprendista di Ogion… di Aihal… un tempo.»

La strega scosse la testa. «Quello era il ragazzo venuto dal villaggio di Dieci Ontani, cara», disse. «Adesso è Arcimago a Roke.»

Tenar annuì.

«No, cara», disse Muschio. «Questo gli assomiglia. Ma non è lui. Quest’uomo non è un mago. E neppure uno stregone.»

Erica passava lo sguardo dall’una all’altra, affascinata. Non capiva granché di quel che diceva la gente, ma amava sentirla parlare.

«Ma io lo conosco, Muschio. È Sparviero.» Nel pronunciare il nome d’uso di Ged, Tenar provò un’improvvisa tenerezza e per la prima volta si rese conto che era davvero lui, e che tutti gli anni trascorsi da quando lo aveva visto per la prima volta erano il legame che li univa. Si rammentò di una luce simile a una stella, comparsa nell’oscurità, sottoterra, molti anni prima, e della sua faccia illuminata da quella luce. «Lo conosco, Muschio», ripeté sorridendo. Il suo sorriso si allargò. «È il primo uomo che ho visto», aggiunse.

Muschio borbottò qualcosa e si spostò. Non le piaceva contraddire la «signora Goha», ma non era per niente convinta. «Esistono trucchi, travestimenti, trasformazioni, metamorfosi», disse. «Meglio andarci piano, cara. Com’è giunto nel posto dove l’hai trovato? Qualcuno l’ha visto, quando è passato dal villaggio?»

«Nessuna di voi ha visto…?»

Tutte la fissarono. Tenar cercò di dire «il drago», ma si accorse di non riuscirci. Le sue labbra e la sua lingua non volevano articolare quella parola. Ma un nome si formò da solo, e usò le sue labbra per pronunciarsi. «Kalessin», disse.

Therru la fissava. Dalla bambina parve irradiarsi un’onda di calore, come se avesse la febbre. Tenar non disse niente, ma mosse le labbra come per ripetere il nome e il calore tornò a bruciare attorno a lei.