«Tenar», disse, senza sorridere. Un puro segno di riconoscimento, al di là di qualsiasi emozione. E Tenar provò un piacere puro — come per un gusto dolce o per un fiore — nel constatare che c’era ancora un uomo che conosceva il suo nome, e che era quell’uomo.
Si chinò su di lui e lo baciò sulla guancia. «Sta’ fermo», gli disse, «e lasciami finire.» Lui obbedì; quasi subito scivolò di nuovo nel sonno, questa volta con le mani aperte e rilasciate.
Più tardi, nell’addormentarsi vicino a Therru, dopo il tramonto, Tenar pensò: non l’avevo mai baciato, prima. E l’idea la lasciò di stucco. In un primo momento si disse che non era vero. Certo, in tutti quegli anni… Non nelle Tombe, ma dopo, quando avevano viaggiato insieme sulle montagne… Sul Vistacuta, quando avevano fatto vela insieme per Havnor… Quando lui l’aveva portata a Gont…
No. E neanche Ogion l’aveva mai baciata, né lei l’aveva baciato. La chiamava figlia, e le voleva bene, ma non la toccava mai, e lei, che era stata allevata come una sacerdotessa solitaria e intoccabile, come un oggetto di culto, non aveva mai cercato il contatto, non aveva mai saputo di averne bisogno. Posava per un istante la guancia o la fronte sulla mano di Ogion, e lui, di tanto in tanto, le passava la mano sui capelli, una volta sola, con molta delicatezza.
Ma Ged non aveva mai fatto nemmeno quello.
Non ho mai pensato a queste cose? si chiese, incredula e stupita.
Non lo sapeva. Adesso che rifletteva sull’argomento, provò per un attimo un forte orrore, un senso di trasgressione, che subito svanì, senza assumere alcun significato. Sulle labbra aveva sentito il contatto con la sua guancia destra, vicino alla bocca, e la pelle asciutta e fredda: solo quella constatazione aveva senso.
Dormì, e sognò che qualcuno gridava il suo nome: «Tenar! Tenar!» e che lei rispondeva con un grido simile a quello di un uccello marino che volava immerso nella luce, al di sopra del mare; ma al risveglio non ricordò il nome da lei gridato.
Ged fu una delusione per Zia Muschio. Continuò a vivere, e dopo un paio di giorni lei lo dichiarò fuori pericolo. Gli portò il suo brodo di carne di capra e di radici e di erbe, facendolo appoggiare contro di sé, circondandolo con il denso afrore del suo corpo, e, una cucchiaiata alla volta, brontolando, gli ridiede la vita. Anche se Ged l’aveva riconosciuta e la chiamava con il suo nome d’uso, e anche se la strega non poteva negare che l’uomo somigliava a quello chiamato Sparviero, avrebbe voluto negarlo. Il nuovo venuto non le piaceva. Le cose erano tutte storte, diceva. Tenar rispettava le intuizioni della strega quanto bastava per essere preoccupata, ma dentro di sé non riusciva a trovare alcun sospetto del genere. Era semplicemente contenta che Ged fosse con lei e riprendesse a poco a poco le forze. «Quando sarà di nuovo lui, vedrai anche tu», diceva a Muschio.
«Lui!» esclamava la strega, e faceva il gesto di rompere tra le dita un guscio di noce.
Fin dai primi giorni, Ged chiese di Ogion: la domanda che Tenar temeva più di ogni altra. Si era detta — ed era quasi riuscita a convincersi — che Ged non aveva bisogno di chiedere, che l’aveva già saputo alla maniera dei maghi, come l’avevano saputo i maghi di Porto Gont e di Re Albi, i quali erano accorsi quando Ogion era morto. Ma la mattina del quarto giorno, nel controllare le sue condizioni, Tenar si accorse che era sveglio. Alzando lo sguardo verso di lei, Ged le disse: «Questa è la casa di Ogion».
«La casa di Aihal», rispose lei, trattenendo il fiato; le risultava ancora difficile pronunciare il nome vero del mago. Ged non le aveva mai detto di conoscere quel nome, ma certo lo conosceva, o perché gliel’aveva detto lo stesso Ogion, o perché non c’era bisogno che glielo dicesse.
Per qualche momento non ci fu alcuna reazione da parte di Ged, che poi, senza particolari intonazioni, disse: «Allora è morto».
«Dieci giorni fa.»
Ged rifletté su queste parole, come se cercasse qualche particolare di cui si era dimenticato.
«Quando sono arrivato?» domandò infine.
Lei dovette accostarsi ancora di più, per sentire.
«Quattro giorni fa; verso sera.»
«Non c’era nessun altro sulle montagne», disse Ged. Poi rabbrividì, come per una fitta di dolore o per il ricordo di una sofferenza insopportabile. Chiuse gli occhi, aggrottando la fronte, e trasse un profondo respiro.
A mano a mano che riprendeva le forze, quel suo accigliarsi, l’uso di trattenere il respiro e di stringere le mani a pugno divennero per Tenar immagini familiari. La forza gli ritornò, ma non la serenità, non il benessere.
Sedeva sulla soglia, al sole del tardo pomeriggio estivo. Era il tragitto più lungo che avesse compiuto fino allora dal letto a lì. Sedeva e fissava il sole al tramonto e Tenar, che faceva ritorno dal filare di fagioli, lo osservò con attenzione. Aveva ancora un aspetto cinereo, buio. Non era solo dovuto ai capelli grigi, ma a qualcosa che aveva nella pelle e nelle ossa, e pelle e ossa era tutto quel che restava di lui. Non aveva alcuna luce negli occhi. Eppure quell’ombra, quell’uomo di cenere, era lo stesso che lei aveva visto, per la prima volta, illuminato dal suo stesso Potere, il forte viso dal naso aquilino e le labbra ben disegnate, un bel volto. Era sempre stato un bell’uomo, con un portamento orgoglioso.
Tenar lo raggiunse.
«Hai bisogno di sole», gli disse, e lui annuì. Ma anche mentre sedeva al tepore del sole dell’estate continuava a stringere i pugni.
Era così taciturno che Tenar si chiese se non fosse la sua presenza a dargli fastidio. Forse non riusciva più a comportarsi con la familiarità di un tempo. Adesso era l’Arcimago: Tenar tendeva a dimenticarsene. Ed erano passati venticinque anni da quando avevano superato le montagne di Atuan e avevano attraversato sul Vistacuta il Mare Orientale.
«Dov’è il Vistacuta?» gli chiese all’improvviso, sorpresa da quell’idea. Poi pensò: come sono sciocca! Sono passati tanti anni, e lui è Arcimago, chissà da quanto tempo ha rinunciato a quella barca così piccola.
«A Selidor», rispose Ged, e sul viso gli comparve la sua immutabile, incomprensibile angoscia.
In un tempo remoto come mai; in un luogo lontano come Selidor…
«L’isola più lontana», disse Tenar, ed era in parte anche una domanda.
«La più lontana a occidente», rispose Ged.
Sedevano a tavola, dopo avere terminato il pasto serale.
Therru era uscita a giocare.
«Allora, sei venuto da Selidor, portato da Kalessin?» Nel dire il nome del drago, le parve di nuovo che quel nome si pronunciasse da sé, le atteggiasse la lingua e le labbra alla sua forma e al suo suono, trasformasse il respiro in fuoco.
Nell’udire il nome, Ged la fissò per un istante, con grande attenzione, e lei, in quell’istante, comprese che di solito evitava di guardarla negli occhi. Ged annuì. Poi, a fatica, ma per amore del vero, precisò: «Da Selidor a Roke. E poi da Roke a Gont».
Quante miglia potevano essere? Mille? Diecimila? Tenar non ne aveva idea. Aveva visto le grandi mappe tra i tesori di Havnor, ma nessuno le aveva insegnato i numeri, le distanze. Un luogo lontano come Selidor… E il volo di un drago si poteva misurare in miglia?
«Ged», gli disse, usando il suo nome vero perché erano soli, «so che hai sofferto molto, che hai corso gravi rischi. E se non vuoi, o non puoi, non dirmi niente… Ma se sapessi qualcosa di più, forse potrei aiutarti. Ne sarei lieta. Presto arriveranno da Roke a prenderti, manderanno una nave per l’Arcimago oppure un drago, che so! E tu sarai di nuovo lontano. E non ci saremo parlati.» Nel dirlo, però, dovette stringere i pugni, offesa dalla falsità delle proprie parole. Fare dell’ironia sul drago… lamentarsi come una moglie tradita!