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Ged aveva chinato la testa e fissava il tavolo: era cupo, ostinato, come un contadino che dopo avere trascorso una faticosa giornata nei campi doveva affrontare una noiosa lite domestica.

«Non verrà nessuno da Roke, penso», disse, e quelle parole dovettero costargli un notevole sforzo, perché poi, per qualche minuto, rimase in silenzio. «Dammi tempo», aggiunse.

Tenar pensò che non volesse dire altro, e rispose: «Sì, certo. Scusa». Si stava alzando per sparecchiare, quando Ged continuò, senza alzare gli occhi dal tavolo, e con voce malferma disse:

«Adesso ho tempo».

Poi si alzò a sua volta, portò i piatti nell’acquaio e finì di sparecchiare. Lavò i piatti mentre Tenar riponeva le pietanze. Il suo affaccendarsi incuriosì la donna che mentalmente lo stava paragonando a Selce; ma Selce non aveva mai lavato un piatto in tutta la sua vita. Lavoro da donne. Però tanto Ogion quanto Ged erano vissuti lì, scapoli, senza donne; e Ged, anche negli altri luoghi dove era vissuto, non aveva mai avuto donne con sé. Perciò faceva un «lavoro da donna», senza porsi il problema. E sarebbe stato un peccato, pensò, se se lo fosse posto, se avesse cominciato a temere che la sua dignità fosse affidata a un canovaccio per asciugare i piatti.

Nessuno era giunto da Roke a cercarlo. Da quando ne avevano parlato, difficilmente ci sarebbe stato il tempo di arrivare, se non con una nave sospinta da un vento magico per l’intero tragitto. Ma i giorni passarono senza che giungesse alcun messaggio per lui. A Tenar pareva strano che lasciassero solo, per tutto quel tempo, il loro Arcimago. Doveva avere vietato loro di chiamarlo, oppure doveva essersi nascosto con la sua magia, per non farsi trovare e per non essere riconosciuto. Infatti, stranamente, dal villaggio non era giunto nessuno a chiedere di lui.

Meno strano era, invece, che nessuno fosse giunto dal castello di Re Albi. Tra i signori del castello e Ogion non era mai corso buon sangue. Le donne della casa, così si diceva nel villaggio, praticavano un tempo la magia nera; una era andata sposa a un signore del Nord che aveva poi finito per seppellirla viva sotto una pietra, un’altra aveva fatto qualcosa al figlio che portava ancora in seno, perché nascesse con grandi Poteri, e infatti era già in grado di parlare fin dalla nascita, ma non aveva ossa. «Come un sacchettino di pelle», aveva sussurrato la levatrice alle altre donne del villaggio, «un sacchettino con gli occhi e la voce, e non è mai arrivato a prendere il latte, ha solo pronunciato qualche parola in una lingua incomprensibile e poi è morto…» Vere o false che fossero queste storie, i signori di Re Albi si erano sempre tenuti da parte. Come accompagnatrice del mago Sparviero, pupilla del mago Ogion, portatrice a Havnor dell’Anello di Erreth-Akbe, Tenar avrebbe potuto chiedere di essere accolta al castello, al suo arrivo a Re Albi; ma lei non lo aveva fatto. Era invece andata ad abitare, con grande soddisfazione, nella piccola casa appartenente al tessitore del villaggio, Ventaglio, e aveva visto solo da lontano gli abitanti del castello, e raramente. Muschio le aveva detto che nella dimora, al momento, non c’era una castellana, ma solo il vecchio signore, ormai molto anziano, e il nipote, oltre al giovane mago chiamato Pioppo, venuto dalla scuola di Roke.

Da quando Ogion era stato sepolto con in mano l’amuleto di Zia Muschio, sotto il suo faggio preferito, accanto al sentiero che portava alla cima della montagna, Tenar non aveva più visto Pioppo. Per quanto la cosa fosse strana, questi forse non sapeva della presenza dell’Arcimago nel suo stesso villaggio o, se lo sapeva, si teneva lontano da lui. E, al pari di lui, il mago di Porto Gont, anch’egli venuto a seppellire Ogion, non si era più fatto vedere. Tuttavia, benché non sapesse che Ged era lassù, quel mago sapeva perfettamente chi era lei, la Signora Bianca, che aveva al polso l’Anello di Erreth-Akbe, che aveva reintegrato la Runa della Pace… E quanti anni sono passati da allora, vecchia mia? chiese a se stessa. La superbia ti ha fatto perdere la ragione?

Comunque, era stata lei a rivelare il nome vero di Ogion. Le pareva di meritare un po’ di cortesia.

Ma i maghi, per loro natura, non avevano niente a che fare con la cortesia. Erano uomini di Potere. Era solo il Potere a muoverli. E che Potere aveva lei, adesso? Che Potere aveva avuto in passato? Da ragazza, da sacerdotessa, lei era solo un contenitore; il Potere delle Tenebre scorreva in lei, la usava, la lasciava vuota e intatta. Da giovane donna le era stata insegnata una conoscenza di Potere, da un uomo di Potere, e lei aveva rinunciato a quella conoscenza, non l’aveva toccata. Da donna adulta aveva scelto i Poteri di una donna, e li aveva usati, a tempo debito, ma quel tempo era ormai passato; il suo periodo di moglie e di madre era finito. Non c’erano Poteri riconoscibili, adesso, in lei.

Ma un drago le aveva parlato. «Io sono Kalessin», le aveva detto, e lei aveva risposto: «Io sono Tenar».

«Che cos’è un Signore dei Draghi?» aveva chiesto a Ged, nel luogo oscuro, il Labirinto, per negare il suo Potere e per costringerlo ad ammettere quello di lei; e lui le aveva risposto con la semplicità e l’onestà che sempre la disarmavano: «Un uomo con cui i draghi sono disposti a parlare».

Così, lei era una donna con cui i draghi erano disposti a parlare. Era quella la cosa nuova, la conoscenza nascosta, il minuscolo seme che aveva sentito in se stessa quando si era svegliata sotto la piccola finestra d’occidente?

Qualche giorno dopo la breve conversazione a tavola, Tenar toglieva le erbacce dall’orto di Ogion per salvare dalle male piante estive le cipolle da lui piantate in primavera. Ged si era recato al cancello del recinto che impediva alle capre di entrare nell’orto, e toglieva le erbacce da quella parte. Lavorò un poco e poi si fermò, guardandosi le mani.

«Da’ loro il tempo di guarire», disse Tenar, in tono pacato.

Lui annui.

Le alte piante di fagiolo del filare successivo erano in fiore e spandevano un profumo molto dolce. Ged sedette, appoggiando sulle ginocchia le braccia esili, e fissò l’intrico di viticci, di fiori e di baccelli illuminati dal sole. Tenar, continuando a lavorare, mormorò: «Prima di morire, Aihal ha detto: ‘Tutto è cambiato…’ E dal giorno della sua morte ho continuato a piangerlo, ma c’è qualcosa che allevia il mio dolore. Qualcosa sta per nascere… è stato liberato. L’ho capito nel sonno e, al mio risveglio, qualcosa era cambiato».

«Si», ammise lui. «Un male è finito. E…»

Dopo un lungo silenzio, Ged riprese a parlare. Non guardò Tenar, ma per la prima volta la sua voce tornò a essere quella che lei ricordava: pacata, bassa, con la secca cadenza di Gont.

«Ricordi, Tenar, il giorno in cui siamo arrivati a Havnor?»

Come potrei dimenticarmene? si chiese lei, ma non disse niente, per paura che Ged si chiudesse nel silenzio.

«Abbiamo condotto il Vistacuta in porto e siamo saliti sul molo… i gradini erano di marmo. E la gente, tutta la gente… e tu che sollevavi il braccio per mostrare loro l’Anello…»

…e io ti tenevo la mano; non ero mai stata così terrorizzata: le facce, le voci, i colori, le torri e le bandiere, l’argento, l’oro e la musica, e l’unico che conoscevo eri tu… in tutto il mondo, l’unico che conoscevo eri tu, che camminavi al mio fianco…

«Gli scudieri del palazzo reale ci hanno accompagnato fino ai piedi della Torre di Erreth-Akbe, attraverso le strade piene di gente. E siamo saliti sui suoi alti scalini, noi due soli. Ricordi?»

Lei annuì. Posò le mani sulla terra che aveva ripulito dalle erbacce, e la sentì fredda e granulosa.

«Ho aperto la porta. Era pesante; a tutta prima non voleva aprirsi. Poi siamo entrati. Ricordi?»

Pareva che Ged le chiedesse di rassicurarlo. È davvero successo? Ricordo bene?