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«Era una stanza alta, grande», disse Tenar. «Mi ha fatto pensare alla mia Sala, quella in cui ero stata divorata, ma solo perché era tanto alta. La luce giungeva da finestre collocate molto in alto sulla Torre. Raggi di luce che si incrociavano come spade.»

«E il trono», disse Ged.

«Il trono, sì. Tutto oro e rosso. Ma vuoto. Come il trono nella Sala di Atuan.»

«Non più», disse Ged. Guardò in direzione di Tenar, fra le verdi foglie delle cipolle. Aveva la faccia tesa, ansiosa, come se parlasse di una gioia che non riusciva bene ad afferrare. «Adesso c’è un re, a Havnor», disse. «Al centro del mondo. Le profezie si sono avverate. La Runa è integra, e il mondo è riunito. I giorni della pace sono arrivati. Lui…»

S’interruppe e guardò in terra, stringendo i pugni.

«Lui mi ha riportato dalla morte alla vita. Arren di Enlad. Lebannen, nei canti che verranno composti in futuro. Ha assunto il suo nome vero, Lebannen, re di Earthsea.»

«E questa, allora», chiese lei, guardandolo attentamente, «la gioia, la luce?»

Lui non rispose.

C’è un re a Havnor, pensò Tenar, e disse forte: «C’è un re a Havnor!»

L’immagine della bellissima città era rimasta vivissima in lei: le strade larghe, le torri di marmo, i tetti coperti di tegole rosse e di bronzo, le navi dalle bianche vele ancorate nel porto, la meravigliosa sala del trono, trapassata dai raggi di sole come da lame di spada, la ricchezza, la dignità, l’armonia e l’ordine che vi regnavano. Da quel centro luminoso, Tenar vedeva l’ordine allargarsi verso la periferia come una serie di anelli perfetti che si formano su uno specchio d’acqua, come la linea retta di una strada lastricata o la rotta di una nave con il vento in poppa: qualcosa che va come deve andare, portando con sé la pace.

«Hai fatto bene, caro amico», disse Tenar.

Ged fece un piccolo gesto, come per fermare le sue parole, poi si girò e si portò la mano davanti alla bocca. Tenar non sopportava di vederlo piangere. Si chinò sulle sue erbacce. Tirò una foglia, poi un’altra, e la radice si spezzò. Scavò con le mani, cercando la radice dell’erbaccia nel suolo duro, nel buio della terra.

«Goha», disse Therru, con la sua voce debole e roca, dal cancello, e Tenar guardò nella sua direzione. La mezza faccia della bambina era rivolta verso di lei; la guardava sia con l’occhio buono sia con quello cieco. Tenar si chiese: devo dirle che a Havnor c’è un re?

Si alzò e si avvicinò alla bambina perché non si sforzasse troppo le corde vocali per farsi sentire. Faggio le aveva detto che, quando Therru, priva di sensi, era caduta nel fuoco aveva respirato le fiamme. «Le hanno bruciato la voce», aveva spiegato.

«Guardavo Sippy», sussurrò Therru, «ma è uscita dal pascolo. Non riesco a trovarla.»

Era uno dei più lunghi discorsi che avesse fatto. Tremava perché aveva corso e perché si sforzava di non piangere. Non possiamo piangere tutti, si disse Tenar… è una cosa sciocca, non possiamo! «Sparviero!» disse, voltandosi verso di lui, «è scappata una capra.»

Ged si alzò immediatamente e guardò nel recinto.

«Prova nel capanno», disse.

Guardò Therru come se non vedesse le sue orrende ferite, come se non la vedesse affatto: era soltanto una bambina che aveva perso una capra e aveva bisogno di ritrovarla. In quel momento, Ged vedeva solo la capra. «Oppure è andata a unirsi al gregge del villaggio», aggiunse.

Therru stava già correndo al capanno.

«È tua figlia?» chiese Ged. Non aveva mai parlato della bambina, fino a quel momento, e per un attimo Tenar riuscì solo a pensare che talvolta gli uomini erano davvero strani.

«No, e neanche mia nipote. Ma è la mia bambina», disse. Perché le era di nuovo venuta voglia di prenderlo in giro?

Ged si staccò dal recinto proprio mentre Sippy correva verso di loro — un lampo marrone e bianco — seguita a grande distanza da Therru.

«Ehi!» esclamò Ged, e con un balzo bloccò la strada alla capra, spingendola verso il cancello e verso le braccia di Tenar, che riuscì ad afferrarla per il collare. La capra s’immobilizzò immediatamente, tranquilla come un agnellino, e con uno dei suoi occhi gialli fissò Tenar, con l’altro guardò i filari delle cipolle.

«Via!» disse Tenar, allontanandola da quel paradiso delle capre e facendola entrare nel pascolo, molto più sassoso, a lei riservato.

Ged si era seduto a terra, trafelato come la bambina, o anche di più, perché ansimava e aveva le vertigini; ma almeno non piangeva. Quando c’è da rovinare qualcosa puoi sempre contare sulle capre.

«Erica non doveva incaricarti di sorvegliare Sippy», disse Tenar, rivolta a Therru. «Nessuno può sorvegliare quella capra. Se scappa di nuovo, devi dirlo a Erica, e non devi preoccuparti. Va bene?»

Therru annuì. Stava guardando Ged. Era difficile che guardasse la gente, e soprattutto gli uomini, per più di un istante, ma ora lo fissava, con la testa inclinata come quella di un passero. Che fosse nato un eroe?

RICADUTA

Era passato più di un mese dal solstizio, ma le sere erano ancora lunghe, sul Grande Precipizio che si affacciava verso ovest. Therru era ritornata tardi da una spedizione con Zia Muschio, alla ricerca di erbe, che era durata tutto il giorno, ed era troppo stanca per mangiare. Tenar l’aveva messa a letto e le sedeva accanto, per cantarle qualche canzone. Quando era stanca, la bambina non riusciva a dormire, ma si raggomitolava nel letto come un animale paralizzato, fissava qualche allucinazione fino a portarsi in uno stato di incubo, né sveglia né addormentata, e diventava irraggiungibile. Tenar aveva scoperto di poter evitare quella paurosa condizione stringendo a sé la bambina e facendola addormentare con i suoi canti. Quando terminava quelli che aveva imparato nella fattoria della Valle di Mezzo, iniziava con gli interminabili canti di Karg che aveva imparato da bambina nelle Tombe di Atuan, e cullava Therru con la monotonia e il dolce lamento delle offerte ai Poteri Senza Nome e al Trono Vuoto, che adesso era pieno della polvere e delle rovine del terremoto. In quei canti non sentiva altro Potere che quello della musica in sé, e le piaceva cantare nella propria lingua, anche se non conosceva le ninne-nanne delle madri di Atuan, quelle che sua madre aveva cantato a lei.

Infine, Therru si addormentò. Tenar la infilò sotto le coperte e attese qualche istante per accertarsi che il sonno fosse regolare. Poi, dopo essersi guardata attorno per assicurarsi che nessuno la vedesse, con una sorta di piacere colpevole, posò la mano sulla faccia della bambina, dove il fuoco aveva divorato l’occhio e la guancia, lasciando solo la pelle cicatrizzata. Sotto la mano, non sentì niente di tutto questo. La pelle era liscia: era la guancia tonda di una bambina addormentata. La sua mano aveva ristabilito la verità.

Poi, lentamente, con riluttanza, alzò la mano e vide la perdita irreparabile, la guancia che non sarebbe mai guarita del tutto.

Si chinò sulla bambina e accostò le labbra alla cicatrice, si alzò senza fare rumore e uscì dalla casa.

Il sole tramontava, avvolto da un alone perlaceo. Non c’era nessuno. Sparviero si era probabilmente allontanato nella foresta. Aveva preso l’abitudine di recarsi alla tomba di Ogion, e passava ore intere sotto l’albero preferito dal vecchio mago; da quando gli erano ritornate le forze aveva cominciato a vagare per la foresta, lungo i sentieri amati da Ogion. Mangiare evidentemente non aveva alcuna attrattiva per lui; Tenar doveva sempre ricordarglielo. Inoltre, Ged evitava la compagnia e preferiva la solitudine. Therru l’avrebbe seguito dappertutto, ed essendo silenziosa come lui non gli avrebbe dato fastidio, ma Ged era inquieto, e finiva per rimandare a casa la bambina e per allontanarsi da solo, fino a luoghi lontani. Tenar non sapeva perché ci andasse. Ritornava tardi e si metteva subito a dormire; spesso, l’indomani mattina, si allontanava ancor prima che lei e la bambina si svegliassero. Tenar gli lasciava sempre del pane e del formaggio da portare via.