Quella sera lo vide ritornare dal sentiero che le era parso tanto lungo e faticoso, quando aveva aiutato Ogion a percorrerlo per l’ultima volta. Quando giunse, Ged era circondato dall’aria luminosa, dalle erbe piegate dal vento, e camminava ritto, chiuso nel suo dolore, duro come la pietra.
«Rimani tu, in casa?» gli chiese, quando fu più vicino. «Therru si è addormentata. Volevo andare a fare due passi.»
«Sì, va’ pure», rispose lui, e lei si allontanò, riflettendo sull’indifferenza degli uomini nei riguardi delle esigenze delle donne: che doveva sempre rimanere qualcuno vicino a un bambino che dormiva, che la libertà di uno comportava la schiavitù di un altro… a meno che non si raggiungesse un equilibrio mobile e in continua evoluzione, come quando si cammina e si muove prima una gamba poi l’altra, praticando quella straordinaria arte che è la deambulazione… Poi si accorse che il colore del cielo era diventato più scuro e che il vento si era levato. Proseguì il cammino, senza perdersi in altre metafore, finché non giunse sul ciglio del Precipizio. Là si fermò a guardare il sole che si perdeva in un alone roseo e sereno.
Si inginocchiò e trovò prima con gli occhi e poi anche con le dita il lungo solco irregolare scavato nella roccia, che correva fino al ciglio: la scia lasciata dalla coda di Kalessin. Passò varie volte le dita su di esso, e con lo sguardo si perse nella lontananza della sera, sognando. Disse una sola parola, che quella volta non fu più come il fuoco sulle sue labbra, ma che sibilò e si trascinò lentamente fuori: «Kalessin…»
Guardò verso est. La cima del Monte di Gont, al di sopra della foresta, era rossa e ancora illuminata dal chiarore che aveva ormai lasciato il punto dove si trovava Tenar. Il colore svanì pian piano, mentre la donna lo osservava. Lei distolse lo sguardo per qualche istante e, quando tornò a osservare la cima, la vide grigia, cupa, e la foresta che copriva il fianco del monte le parve nera.
Attese ancora che spuntasse la stella della sera, poi, quando la vide splendere al di sopra dei vapori del cielo, tornò lentamente verso casa.
Una casa che non era la sua. Perché rimaneva lì nella casa di Ogion, invece di ritornare alla Fattoria delle Querce, e perché si occupava delle capre e delle cipolle di Ogion e non delle sue pecore e dei suoi alberi da frutto? «Aspettalo», le aveva detto Ogion, e lei l’aveva aspettato; il drago era giunto; Ged si era ristabilito; abbastanza, almeno. Tenar aveva fatto la sua parte. Aveva badato alla casa. Non c’era più bisogno di lei. Era tempo che se ne andasse.
Eppure, non riusciva a lasciare quell’alta cornice di roccia, quel nido di falco, per ritornare nella pianura, dove la vita era facile, dove non soffiava il vento: al pensiero, si sentiva mancare il cuore, e si rabbuiava. Non aveva fatto un sogno, sotto la piccola finestra d’occidente? E non era venuto a trovarla un drago, lassù?
La porta della casa era aperta come sempre, per lasciar passare la luce e l’aria. Sparviero sedeva al buio, su un basso sgabello, vicino al focolare che Tenar aveva già spazzato. Amava sedere là, e Tenar pensò che doveva essere il posto dove si sedeva da bambino, durante il breve apprendistato presso Ogion. Anche lei sedeva sempre in quel luogo d’inverno, quando era allieva del mago.
Ged la guardò, quando Tenar fece il suo ingresso; fino a un attimo prima non aveva guardato la porta, ma più in là, sulla destra, l’angolo in ombra dietro il battente. C’era il bastone di Ogion, di quercia, pesante, liscio dove il mago lo afferrava, alto come lo stesso Ogion. Accanto Therru aveva messo il bastone di nocciolo e quello di ontano che Tenar aveva tagliato per loro, sulla strada per Re Albi.
Tenar pensò: il suo bastone di mago, il bastone di tasso, quello che gli ha dato Ogion, dov’è? E nello stesso tempo: perché questo particolare mi è venuto in mente soltanto ora?
Nella casa era buio, e si aveva un’impressione di chiuso. Tenar provò un senso di oppressione. Aveva sperato di poter parlare con Ged, ma all’improvviso si accorse di non avere niente da dirgli, e che anche Ged non aveva niente da dire a lei.
«Ho pensato», disse infine la donna, mettendo in ordine i quattro piatti, sul ripiano di quercia, «che ormai dovrei ritornare alla mia fattoria.»
Ged non disse niente. Forse fece un cenno con la testa, ma in quel momento Tenar gli voltava la schiena.
Tutt’a un tratto, lei si accorse di essere molto stanca, e sentì il bisogno di andare a dormire; ma Ged sedeva davanti all’ingresso, e non era ancora buio; Tenar non poteva svestirsi davanti a lui. Per la vergogna, provò una forte irritazione; stava per chiedergli di uscire un momento, quando Ged si schiari la gola e parlò, in tono leggermente esitante.
«I libri», disse. «I libri di Ogion. Il libro delle Rune e i due libri delle formule e dei miti. Li porti via con te?»
«Con me?»
«Sei stata il suo ultimo allievo.»
Tenar si avvicinò al focolare e si sedette sulla sedia a tre gambe appartenuta a Ogion.
«Avevo imparato a scrivere le Rune hardiche, ma credo ormai di essermele dimenticate. Inoltre aveva cominciato a insegnarmi la lingua dei draghi, e in parte me la ricordo ancora. Ma nient’altro. Non sono mai diventata un mago, un adepto. Mi sono sposata, te l’ho detto. Pensi che Ogion avrebbe lasciato i suoi libri magici alla moglie di un fattore?»
Dopo una breve pausa, Ged chiese: «Allora, non li ha lasciati a nessuno?»
«Certamente intendeva lasciarli a te.»
Ged non disse niente.
«Sei stato il suo apprendista, e il suo orgoglio, e inoltre eri suo amico», gli ricordò Tenar. «Non l’ha mai detto espressamente, ma è chiaro che vanno a te.»
«Che cosa me ne faccio?»
Lei lo guardò, nella penombra. Dalla finestra giungeva ancora un riflesso di luce. Il tono severo, incomprensibile, iroso di Ged irritò Tenar.
«Tu, l’Arcimago, lo chiedi a me? Perché mi tratti come se fossi più sciocca di quel che sono, Ged?»
A quel punto, lui si alzò. Con voce tremante, disse: «Ma tu… non capisci che è tutto finito?»
Lei lo fissò, cercando di leggere l’espressione del suo viso, ma non riuscì a distinguerla.
«Non ho più Poteri. Li ho consumati… tutti quelli che avevo. Per chiudere… Per fare… Tutto è finito.»
Tenar cercò di non prestare fede a quelle parole, ma era impossibile.
«Come versare dell’acqua», proseguì Ged. «Come versare nella sabbia un bicchiere d’acqua. Nel deserto. Sono stato costretto a farlo. Ma adesso non ho più niente da bere. E che differenza può fare, un bicchier d’acqua in più o in meno, nel deserto? Il deserto è forse sparito? Ah! Ascolta… Me lo sussurrava sempre, da dietro quella porta: ascolta! Ascolta! E io mi sono recato in quel deserto quando ero giovane. E laggiù l’ho incontrata, sono diventato lei, ho sposato la mia morte. Mi ha dato la vita. L’acqua della vita. Ero un ruscello, una sorgente, che continuava a scorrere, a dare. Ma laggiù non scorrono ruscelli. Alla fine, tutto quel che mi rimaneva era un bicchiere di quell’acqua, e l’ho dovuta versare nella sabbia, sul letto del fiume prosciugato, sulle rocce avvolte dalle Tenebre. Perciò è finita.»
Tenar aveva imparato abbastanza, da Ogion e da Ged, per capire di quale terra parlasse, e che quelle immagini non servivano a mascherare la verità, ma erano la verità che lo stesso Ged aveva conosciuto. Sapeva anche di dover negare le parole di Ged, anche se erano vere. «Devi avere ancora pazienza, Ged», gli disse. «Ritornare dal regno della morte deve essere un lungo viaggio… anche sulle spalle di un drago. Ti occorrono tempo e tranquillità, riposo e silenzio. Sei stato male, ma in futuro guarirai.»
Per qualche tempo, Ged non disse niente, e Tenar cominciò a pensare di avere detto la cosa più giusta, di avergli dato un po’ di conforto. Ma alla fine Ged disse: