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Tenar prese Therru per il braccio e la tirò, trascinandola via. «Vieni!» disse, e passò davanti all’uomo, poi accelerò il passo e scese verso le macchie di luce e di buio del mare illuminato dal sole al tramonto, verso i magazzini e i moli ai piedi della ripida stradina. Therru corse con lei, ansimando come il giorno in cui era stata bruciata.

Sullo sfondo del cielo rosso e giallo si vedevano dondolare altissimi alberi. La nave che Tenar aveva visto arrivare aveva ammainato le vele ed era ferma accanto al molo, dietro una galea.

Tenar si guardò alle spalle. L’uomo le seguiva, a poca distanza da loro. Pareva non avere fretta.

Corsero lungo il molo, ma dopo qualche tempo Therru incespicò e non fu più in grado di proseguire: era esausta. Tenar la prese in braccio, e la bambina si tenne a lei, nascondendo la faccia contro la sua spalla. Ma Tenar, con quel peso, riusciva a malapena a camminare. Le tremavano le ginocchia. Fece un passo, poi un secondo e un terzo. Arrivò alla passerella che avevano gettato tra il molo e la tolda della nave. Si tenne alla ringhiera.

Un marinaio appoggiato alla murata — un individuo magro e muscoloso, dalla testa calva — la guardò con attenzione. «Qualcosa non va, comare?» chiese.

«Questa nave… viene da Havnor?»

«Dalla Città del Re, certo.»

«Fatemi salire!»

«Be’, io non sono autorizzato a farlo», rispose il marinaio, sorridendo, e subito distolse lo sguardo; ora guardava l’uomo che si era affiancato a Tenar.

«Non dovete fuggire», disse Faina. «Non voglio farvi del male. Voi non capite. Sono stato io a cercare aiuto per la bambina, non lo sapete? Mi è davvero dispiaciuto per quello che è successo. Ma voglio aiutarvi a tenere la bambina.» Così dicendo, alzò la mano, come se qualcosa di irresistibile gli imponesse di toccare Therru. Tenar non riusciva a muoversi. Aveva promesso alla bambina che quell’uomo non l’avrebbe mai più toccata, ma ora la mano di Faina stava toccando il braccio nudo e tremante di Therru.

«Che cosa volete, voi?» chiese un’altra persona. Al posto del marinaio calvo ne era comparso un altro: un giovanotto. Tenar pensò che fosse suo figlio.

Faina parlò in fretta. «Ha preso… ha rapito la bambina. Mia nipote, è mia. L’ha stregata, è scappata via con lei, e…»

Tenar non poteva parlare. Le avevano di nuovo portato via le parole. Il giovane marinaio non era suo figlio. Aveva un volto affilato e severo, occhi chiari. Guardando quel volto, Tenar trovò le parole: «Lasciatemi salire a bordo. Vi prego!»

Il giovane le tese la mano. Tenar la prese, e lui la aiutò ad attraversare la passerella e a salire sul ponte della nave.

«Aspettate laggiù», disse a Faina; poi si rivolse a Tenar: «Venite con me».

Ma Tenar non riusciva a reggersi in piedi. Si afflosciò, come un fagotto di stracci, sul ponte della nave venuta da Havnor. Si lasciò sfuggire il sacco pesante, ma non la bambina. «Non permettetegli di prenderla, oh, non permetteteglielo più!»

IL »DELFINO«

Non volle lasciare la bambina, non volle affidarla a nessuno. A bordo della nave erano tutti uomini. Solo dopo lungo tempo, Tenar riuscì a capire che cosa dicevano, che cosa avevano fatto, che cosa stava succedendo. Quando comprese chi era il giovanotto che l’aveva aiutata, quello che in un primo momento le era sembrato suo figlio, le parve che tutto fosse sempre stato chiaro, fin dall’inizio, ma lei non ci aveva pensato. Per un lungo periodo, non era stata in grado di pensare a niente.

Il giovane, che era sceso sulla banchina, ritornò a bordo e si fermò vicino alla passerella a parlare con un uomo dai capelli bianchi, che, a giudicare dal suo aspetto, doveva essere il comandante della nave. Guardò Tenar, seduta sulla tolda, tra la murata della nave e un grosso argano. Dopo la lunga giornata di cammino, la stanchezza aveva sopraffatto la paura di Therru; la bambina si era addormentata stretta a Tenar, con il suo zaino per cuscino e il mantello come coperta.

Tenar si alzò lentamente, e il giovane si avvicinò subito. Lei si aggiustò il vestito e i capelli. «Sono Tenar di Atuan», disse. Il giovane non rispose. Tenar continuò: «Voi dovete essere il re».

Era molto giovane, più giovane di suo figlio Scintilla. Non doveva avere più di vent’anni. Ma aveva un’espressione che non era affatto giovane, qualcosa negli occhi che le fece pensare: quest’uomo dev’essere passato attraverso il fuoco.

«Mi chiamo Lebannen di Enlad, signora», disse, e fece per inchinarsi, o addirittura per piegare il ginocchio.

«Non a me!» esclamò lei. «Né io a voi!»

Lui rise, sorpreso, e le tenne le mani, sorridendole. «Come sapevate che vi cercavo? Venivate da me, quando quell’uomo…?»

«No. Stavo fuggendo… da lui… da alcuni malfattori. Volevo tornare a casa, nient’altro.»

«Ad Atuan?»

«Oh, no! Alla mia fattoria. Nella Valle di Mezzo. Passavo per Gont.» Rise: una risata mista a lacrime. Adesso poteva piangere. Lasciò le mani del re per asciugarsi gli occhi.

«Dov’è la Valle di Mezzo?» chiese il re.

«A sudest, dietro quel promontorio. Il porto si chiama Valmouth.»

«Vi portiamo noi», disse il re, lieto di poterle fare un favore.

Lei sorrise, asciugandosi gli occhi, e gli rivolse un cenno d’assenso.

«Un bicchiere di vino. Qualcosa da mangiare, un po’ di riposo», disse il re, «e un letto per la bambina.» Il comandante della nave, che ascoltava con discrezione, diede gli ordini. Il marinaio calvo che Tenar aveva visto per primo (sembrava passata un’eternità) fece per chinarsi su Therru, ma Tenar si mise tra lui e la bambina. Non voleva permettergli di toccarla. «La porto io», disse Tenar, con voce tesa.

«C’è la scaletta, signora. Ci penso io», ripeté il marinaio, ma Tenar, anche se capiva che voleva soltanto usarle una gentilezza, non poteva lasciare che la toccasse.

«La porto io», disse allora il re, e, dopo aver rivolto un’occhiata a Tenar per chiederle il permesso, si chinò, prese in braccio la bambina addormentata, la portò fino al boccaporto e poi giù lungo la scaletta. Tenar lo seguì.

Il re la posò su una cuccetta, in una piccola cabina, in modo goffo e tenero insieme. Coprì Therru con il mantello. Tenar lo lasciò fare.

In una cabina più grande, che occupava tutta la poppa della nave, con una lunga finestra che dava sulla baia illuminata dall’ultima luce del giorno, il re la invitò ad accomodarsi a un lungo tavolo di quercia. Prese un vassoio dalle mani del giovane mozzo che l’aveva portato, versò del vino rosso in pesanti bicchieri di cristallo e offrì a Tenar dolci e frutta.

Lei assaggiò il vino.

«È molto buono, ma non è l’Anno del Drago», osservò.

Lui la guardò con stupore, preso alla sprovvista come un ragazzino.

«È di Enlad, non delle Andrades», disse gentilmente.

«Ma è buonissimo», lo rassicurò Tenar, bevendone un altro sorso. Prese un dolce. Era di pasta frolla, con tanto burro, ma il sapore non era stucchevole. L’uva, di colore verde ambrato, era leggermente asprigna. Il gusto intenso del cibo e del vino faceva pensare ai cavi con cui si ormeggia una nave: ancorarono di nuovo Tenar al mondo, alla sua mente.