«Mi ero davvero spaventata», disse, per scusarsi. «Penso che presto ritornerò a essere me stessa. Ieri… anzi, oggi, questa mattina… hanno messo una… fattura», le era quasi impossibile dire la parola. Riprese, balbettando: «Una ma… maledizione su di me. Mi ha tolto la parola e la ragione. Siamo scappate dalla maledizione, ma siamo incappate proprio nell’uomo, nell’uomo che…» Fissò con disperazione il giovane seduto davanti a lei. Con il suo sguardo grave, questi le diede la forza di proseguire. «Era una delle persone che hanno mutilato la bambina. Lui e i genitori. L’hanno violentata, percossa e poi l’hanno gettata nel fuoco; sono cose che succedono, maestà. Succedono ai bambini. E quell’uomo continua a seguirla, per farle del male. E…»
S’interruppe e bevve un sorso di vino, cercando di assaporarne il gusto.
«E cosi sono corsa da voi. Verso il porto.» Si guardò attorno: le basse travi scolpite della cabina, il tavolo lucido, il vassoio d’argento, il volto affilato e tranquillo del giovane re. Aveva i capelli bruni e soffici, la pelle color bronzo; era vestito con semplicità ed eleganza, ma senza collari, anelli o altri segni esteriori del Potere. Aveva l’aspetto che deve avere un re, si disse Tenar.
«Mi spiace di averlo lasciato andare via», disse il re. «Ma lo ritroveremo. Chi ha messo l’incantesimo su di voi?»
«Un mago.» Non volle dire il nome. Non voleva pensarci. Voleva lasciarsi tutto alle spalle. Né punizioni né ricerche. Che si tenessero il loro odio; a lei bastava stare lontana da loro, dimenticare.
Lebannen non insistette, ma chiese: «Nella vostra fattoria sarete al sicuro da quegli uomini?»
«Penso di sì. Se non fossi stata così stanca, così confusa dalla fff… dalla fff… così confusa nella mente, al punto di non riuscire a pensare, non avrei avuto paura di Faina. Del resto, che cosa poteva farmi? In mezzo alla gente, per strada? Non sarei dovuta scappare. Ma non avevo nella mente altro che la paura. La bambina è così piccola, non può fare altro che avere paura di quell’uomo. Deve imparare a non averne paura. Devo insegnarglielo…» Aveva perso il filo. Cominciò a pensare nella lingua di Karg. Che si fosse rivolta al re in quella lingua? Lebannen l’avrebbe creduta pazza: una vecchia pazza che farneticava. Tenar lo osservò, furtivamente. Il re non guardava dalla sua parte; fissava la fiamma del lume appeso sopra il tavolo, una fiammella chiara e immobile. Il volto del re era troppo triste per un uomo così giovane.
«Siete venuto a cercarlo», disse Tenar. «L’Arcimago. Sparviero.»
«Ged», rispose il re, rivolgendole un leggero sorriso. «Voi, lui, io usiamo i nomi veri.»
«Voi e io, sì», disse Tenar. «Lui lo fa soltanto con noi due.»
Il re annuì.
«È minacciato da persone che lo invidiano, persone di cattiva volontà, e non ha… difese, in questo momento. Lo sapevate?»
Non riuscì a spiegarsi meglio, ma Lebannen disse: «Mi ha detto che i suoi poteri di mago erano esauriti. Li ha consumati nell’atto che mi ha salvato, che ci ha salvato tutti. Ma era difficile crederci. E io non volevo credere».
«Neanch’io. Ma è così. E lui…» Tenar esitò, «vuole rimanere solo finché le sue ferite non si saranno rimarginate», aggiunse cautamente.
Lebannen disse: «Io e lui siamo stati nella terra delle Tenebre, nella terra arida, insieme. Siamo morti insieme. E insieme siamo ritornati indietro, attraverso le montagne. Si può passare per le montagne. C’è una via. Lui la conosceva. Ma il nome di quelle montagne è Dolore. Le sue pietre… tagliano, e le ferite sono lunghe a rimarginarsi».
Si guardò le mani. Tenar si rammentò delle mani di Ged, piene di tagli e abrasioni, chiuse sulle proprie ferite. Perché i tagli non si riaprissero.
S’infilò la mano nella tasca e strinse la piccola pietra che vi era contenuta, il nome che aveva raccolto sulla strada ripida.
«Perché con me si nasconde?» chiese il giovane re, con la voce carica di dolore. Poi, più tranquillo: «Speravo davvero di poterlo vedere. Ma, se lui non vuole, la cosa termina qui, naturalmente». Tenar riconobbe la cortesia, la civiltà, la dignità che aveva già incontrato nei messaggeri di Havnor, e ne fu lieta. Conosceva il loro valore. E, in cuor suo, sentì di voler bene al re proprio per quel dolore che lui stava provando.
«Verrà sicuramente da voi. Ma dategli tempo. È stato ferito così gravemente… gli è stato tolto tutto quello che aveva… Ma quando ha parlato di voi, quando ha pronunciato il vostro nome, oh, allora, per un momento, l’ho rivisto come era, e come tornerà a essere. Ritroverà l’orgoglio!»
«L’orgoglio?» ripeté Lebannen, stupito.
«Certo. L’orgoglio. Chi più di lui ha motivo di inorgoglirsi?»
«Ho sempre pensato a lui come… Era così paziente», disse Lebannen, e poi sorrise per quella descrizione inadeguata.
«Adesso non ha più pazienza», riprese Tenar, «ed è irragionevolmente severo con se stesso. Non possiamo fare niente per lui, penso, tranne che lasciarlo andare per la sua strada in modo che trovi se stesso alla fine della corda cui è legato, come dicono a Gont…» E, d’un tratto, cominciò anche lei a non avere più corda: era talmente stanca che si sentiva girare la testa. «Adesso, temo che dovrò andare a riposare», disse.
Il re si alzò immediatamente. «Lady Tenar», disse, «voi mi avete raccontato di essere fuggita da un nemico per trovarne un altro; ma io sono venuto a cercare un amico e ne ho trovato un altro.» Tenar sorrise, di fronte a tanto garbo e a tanta cortesia. Che bravo ragazzo, questo re, pensò.
La nave era tutta in fermento quando Tenar si svegliò: gemiti e cigolii del fasciame, tonfo di piedi nudi che correvano sulla tolda sopra la sua cabina, colpi di corde che battevano in terra, grida dei marinai. Non fu facile svegliare Therru che sembrava ancora stanca e forse febbricitante, anche se era sempre così calda che Tenar non riusciva mai a capire se avesse veramente la febbre. Provando un certo rimorso sia per aver costretto una bambina di salute cagionevole a fare quindici miglia a piedi sia per tutto quel che era successo il giorno prima, Tenar cercò di rallegrarla raccontandole che erano su una nave sulla quale c’era un vero re e che la loro cabina era quella del re, che la nave le portava a casa, alla fattoria, e che laggiù c’era Zia Lodola che le aspettava, e che forse c’era anche Sparviero. Ma neppure questo servì a destare l’interesse di Therru, che rimase assente, inerte, muta.
Sul suo braccio minuto, Tenar vide un segno: quattro dita rosse come un marchio a fuoco o una stretta violenta. Ma Faina non l’aveva stretta, l’aveva solo sfiorata. Tenar aveva promesso alla bambina che quell’uomo non l’avrebbe più toccata. La promessa non era stata mantenuta. La sua parola non significava nulla. Ma quale parola poteva ancora avere un significato contro la violenza cieca?
Si chinò sul braccio di Therru e baciò i segni.
«Vorrei poterti finire il vestito rosso», le disse. «Probabilmente il re avrebbe piacere di vederlo. Però, non penso che la gente indossi gli abiti più belli quando è su una nave. Neppure i re.»
Therru non si mosse sulla cuccetta rimanendo seduta con la testa china, e in silenzio. Tenar le accarezzò i capelli. Cominciavano a crescere più folti e robusti, finalmente, come una cortina nera e lucida sulle parti bruciate del cuoio capelluto. «Hai fame, passerotto? Non hai mangiato niente ieri sera. Forse il re ci manderà qualcosa per colazione. Ieri mi ha fatto assaggiare i suoi dolci e la sua uva.»
Nessuna risposta.
Quando Tenar le disse che era tempo di uscire dalla stanza, la bambina obbedì. Giunta sul ponte, però, continuò a tenere la testa piegata sulla spalla. Non alzò lo sguardo sulle bianche vele piene del vento del mattino, né lo abbassò sull’acqua scintillante, né si girò a guardare il Monte di Gont che s’innalzava nella sua imponente maestà, coperto di foreste, levando verso il cielo la sua cima. Non alzò gli occhi, quando Lebannen le parlò.