Perciò, non sarebbe servito a molto che Therru diventasse la più abile massaia dell’intera Isola di Gont: neppure la prosperità poteva nascondere il marchio di quel che le era stato fatto. Così, Faggio aveva pensato che potesse fare la strega: professione che le avrebbe permesso di accettare e di sfruttare quel marchio. Era questo, ciò che Ogion aveva voluto farle capire, quando aveva detto: «Impareranno a temerla»? Niente di più?
Un giorno, quando il caso, da lei aiutato, le portò a incontrarsi nella strada del villaggio, Tenar disse a Edera: «Posso farvi una domanda, signora Edera? Una cosa che riguarda la vostra professione».
La strega la guardò. Aveva uno sguardo raggelante.
«La mia professione?»
Tenar annui, gravemente.
«Venite, allora», disse la strega alzando le spalle e avviandosi verso la sua casetta.
Non era un nido d’infamia e di galline, come quella di Muschio, ma era pur sempre la casa di una strega, con le erbe appese a seccare alle travi del soffitto, il fuoco coperto dalla cenere grigia, con un unico, minuscolo carbone che ammiccava come un occhio rosso, un gatto piccolo e obeso, nero con una macchia bianca sul muso, che dormiva acciambellato su uno scaffale, e dappertutto una confusione di scatolette, vasi, brocche, piatti e bottigliette ben tappate, tutte con odori aromatici, pungenti, o dolci, o strani.
«Che cosa posso fare per voi, signora Goha?» chiese Edera, in tono molto secco, quando furono all’interno.
«Ditemi, sempre che non abbiate niente in contrario, se vi pare che la mia protetta, Therru, abbia il dono della vostra arte… se ha qualche Potere.»
«La bambina? Naturalmente, sì!» esclamò la strega.
Tenar rimase un po’ confusa dalla risposta pronta e sprezzante della strega. «Bene», osservò. «Mi sembra che anche Faggio fosse della stessa opinione.»
«Lo vedrebbe anche un pipistrello cieco in una caverna», disse Edera. «C’è altro?»
«Sì. Vorrei un consiglio da voi. Quando avrò fatto la domanda, mi direte il prezzo della risposta. D’accordo?»
«D’accordo.»
«Dovrò mandare Therru da una strega come apprendista, quando sarà più grande?»
Edera rimase in silenzio per qualche istante. Calcola quanto deve chiedermi come pagamento, pensò Tenar. Invece, la strega rispose subito dopo alla domanda. «Io non la prenderei», disse.
«Perché?»
«Avrei paura», rispose la strega, con un’occhiataccia a Tenar.
«Paura? Di che?»
«Di lei! Che cos’è?»
«Una bambina. Crudelmente maltrattata!»
«Non è solo questo.»
Con ira, Tenar esclamò: «Perché, adesso un’apprendista strega deve essere vergine?»
Edera la fissò senza capire. Poi, dopo un momento, disse: «Non mi riferivo a quello».
«E allora a che cosa?»
«Intendevo dire che non so che cosa sia. Quando mi guarda con quell’occhio sano e con quell’altro occhio cieco, non so che cosa veda. Noto che voi vi comportate con lei come se fosse una bambina qualunque, e mi dico: che cosa sono, quelle due? Qual è la forza di quella donna, poiché non è un’irresponsabile, che le permette di tenere per la mano un fuoco, di prendere un tornado e di filarlo come una matassa di lana? Dicono, signora, che da bambina siete vissuta con gli Antichi, con gli Oscuri, con i Sotterranei, e che eravate la regina e la servitrice del loro Potere. Forse è per questo che non avete paura del Potere della bambina. Io non posso dire che Potere sia, perché non lo conosco. Ma è al di là del mio insegnamento, lo so… e al di là di quello di Faggio, o di ogni strega e mago che conosco! Vi do il mio consiglio, signora, liberamente e senza bisogno di pagamento. State attenta. Attenta a lei, il giorno che troverà la sua forza! Nient’altro.»
«Vi ringrazio, signora Edera», disse Tenar, con tutta l’autorevolezza della sacerdotessa delle Tombe di Atuan. Poi uscì dalla stanza riscaldata per immergersi nel vento freddo e tagliente della fine d’autunno.
Era ancora irritata. Nessuno era disposto ad aiutarla, pensò. Sapeva che era un compito troppo difficile per lei, non c’era bisogno che glielo dicessero… ma nessuno di loro era disposto ad aiutarla. Ogion era morto, la vecchia Muschio farneticava, Edera le dava avvertimenti, Faggio si teneva alla larga, e Ged — l’unico che potesse davvero aiutarla — era scappato via, come un cane bastonato: non le aveva più fatto sapere niente, non aveva pensato a lei e a Therru, ma solo alla vergogna da lui provata. Era quella la sua vera figlia, l’unica cosa cui pensasse. Non aveva mai pensato a Tenar, solo al Potere: il Potere di Tenar e il suo, come usarlo e come accrescerlo. Riunire l’Anello diviso, riportare la Runa, mettere un re sul trono. E adesso che il suo Potere si era dissolto, lui continuava ancora a pensarci: a pensare che era sparito, perduto, e che gli aveva lasciato solo se stesso, la sua vergogna, il suo vuoto.
Non sei onesta con lui, Goha disse a Tenar.
Onesta! ribatté Tenar. Ma lui è stato sempre onesto?
Sì, rispose Goha. O, almeno, ha cercato di esserlo.
Be’, allora può essere onesto con le capre che porta al pascolo sui monti, concluse Tenar, avviandosi verso casa, in mezzo al vento e alle prime rade gocce di pioggia.
«Questa notte nevicherà, forse», disse il suo mezzadro Tiff, quando lo incontrò lungo la strada dei pascoli, vicino al Kaheda.
«Nevicherà cosi presto? Spero di no.»
«Comunque, questa notte gelerà, ne sono sicuro.»
E gelò davvero, quella notte; le pozzanghere e gli abbeveratoi si coprirono di una patina opaca di ghiaccio; i giunchi del ruscello cessarono di frusciare, bloccati dal ghiaccio, il vento si fermò, come se anch’esso fosse stato immobilizzato.
Accanto al fuoco — un fuoco più profumato di quello di Edera, perché la legna era quella di un vecchio melo abbattuto in primavera — Tenar e Therru si sedettero a filare e a parlare dopo avere sparecchiato.
«Raccontami la storia del fantasma del gatto», disse Therru con la sua voce roca, avviando la ruota dell’arcolaio per filare un gran mucchio di lana di capra, lucida e leggera.
«Quella storia va bene d’estate.»
Therru piegò la testa sulla spalla.
«In inverno si dovrebbero raccontare solo le grandi storie. Questo inverno imparerai la Creazione di Éa, e così potrai cantarla alla Grande Danza all’inizio dell’estate. Imparerai anche il Canto dell’inverno e Le gesta del giovane re, e alla festa del Ritorno del Sole, quando il sole è verso il nord all’inizio della primavera, potrai cantarle.»
«Non so cantare», sussurrò la bambina.
Tenar aggomitolava la lana della rocca con destrezza e ritmicità.
«Non è solo la voce, a cantare», disse. «La mente canta. La più bella voce del mondo non serve a nulla, se la mente non conosce i suoni.» Slegò l’ultimo pezzo di filo, quello che era stato filato per primo. «Tu possiedi una grande forza, Therru, e la forza senza la conoscenza è pericolosa.»
«Come quelli che non volevano imparare», commentò Therru. «I selvaggi.» Tenar non capì a chi si riferisse, e perciò le rivolse un’occhiata interrogativa. «Quelli che sono rimasti a Occidente», spiegò Therru.
«Ah… i draghi, nel canto della donna di Kemay. Sì. Proprio come dici. Allora, da quale vuoi cominciare? Da come le isole si sollevarono dal mare, o di come re Morred ricacciò indietro le Navi Nere?»
«Le isole», sussurrò Therru.
Tenar avrebbe preferito Le gesta del giovane re, perché immaginava il volto di Lebannen come quello di Morred; ma la scelta della bambina era quella giusta. «Benissimo», disse Tenar. Lanciò un’occhiata al grande libro dei miti di Ogion sulla mensola del focolare, confortata dal fatto che, se si fosse dimenticata qualche parola, lì avrebbe potuto trovarla; trasse un profondo respiro, e incominciò.