Anche tra gli abitanti del villaggio, l’atteggiamento fu molto simile. Qualche bisbiglio e qualche sorriso, ma niente di più. A quanto pareva, guadagnarsi la rispettabilità era più facile di quanto non pensasse Muschio; o forse le cose usate avevano meno valore.
Si senti un po’ offesa e sminuita da quel genere di tacita accettazione; un po’ come se avesse incontrato un’aperta disapprovazione. Solo Lodola riusciva a liberarla dall’imbarazzo, perché non esprimeva alcun giudizio e non ricorreva alle solite parole — uomo, donna, vedova, forestiera — per dire quello che vedeva, ma perché si limitava a osservare lei e Falco con interesse, curiosità, invidia e simpatia.
E poiché Lodola non vedeva Falco attraverso le parole — pastore, bracciante, amante della vedova -, ma osservava lui, vedeva molte cose che la lasciavano disorientata. La sua dignità e la sua semplicità non erano molto diverse da quelle di tanti altri uomini che conosceva, ma erano più sottili, come se lui fosse un uomo più grande degli altri, non come statura o larghezza di spalle, ma di animo e di mente. Disse a Edera: «Quell’uomo non è sempre vissuto con le capre. Conosce il mondo più di quanto non conosca le fattorie».
«Potrebbe essere un mago che è stato scacciato o che ha perso in qualche modo il suo Potere», rispose la strega. «Sono cose che succedono.»
«Ah», commentò Lodola.
Ma la parola «Arcimago» era troppo grande e importante, per trasferirla dallo sfarzo e dai palazzi di isole lontane all’uomo dagli occhi scuri e dai capelli grigi che era andato ad abitare alla Fattoria delle Querce, e a Lodola non venne mai in mente di farlo. Se l’avesse fatto, non si sarebbe più trovata a proprio agio in presenza sua. Già l’idea che fosse stato un mago la inquietava un poco e, per qualche tempo, quell’etichetta si sostituì all’uomo, anche se, infine, lei riuscì a vederlo di nuovo com’era. Lui era salito su uno dei vecchi meli e tagliava i rami secchi, ma la vide arrivare e la salutò cordialmente. Il nome «Falco», pensò allora Lodola, stava davvero bene a quell’uomo appollaiato lassù in alto: perciò alzò il braccio per salutarlo e tornò a sorridergli.
Tenar, comunque, non si era dimenticata della domanda che gli aveva rivolto quel primo mattino, davanti al focolare, sotto il giaccone di pecora. Gliela rivolse di nuovo, qualche giorno o qualche mese più tardi: avevano perso il conto del tempo, nella casa di pietra, nella fattoria ferma per l’inverno. «Non mi hai mai spiegato», gli chiese, «come ti è successo di sentire quei tre, mentre venivano qui.»
«Te l’ho raccontato, mi pare», rispose Ged. «Mi ero nascosto perché li avevo sentiti arrivare dietro di me.»
«Perché?»
«Ero solo, e sapevo che in giro c’erano dei malfattori.»
«Certo… Ma poi, proprio mentre passavano, Tinca ha parlato di Therru?»
«Ha detto ‘Fattoria delle Querce’, se ben ricordo.»
«È una cosa del tutto possibile. Però, mi pare un po’ eccessivo che sia successo proprio così, per semplice combinazione.»
Ged capì che non lo diceva perché non credesse alle sue parole, ma per qualche altro motivo più profondo. Attese che continuasse.
«È il tipo di combinazione che capita ai maghi», disse Tenar.
«E anche ad altri.»
«Può darsi.»
«Mia cara, non cercherai di… reintegrarmi?»
«No. Niente affatto. Ti parrebbe ragionevole? Se tu fossi un mago, non saresti qui.»
Erano nel grande letto di quercia, ben coperti di pelli di montone e di piumini. Nella stanza non c’era il caminetto, e le notti erano gelide, perché, fuori, la neve era diventata ghiaccio.
«Però vorrei sapere una cosa. C’è qualcosa, oltre a quello che voi chiamate Potere, che forse viene prima di esso? Qualcosa di più profondo, e il Potere è solo uno dei modi di usarlo? Per esempio, Ogion ha detto una volta, parlando di te, che prima ancora che ti venissero impartiti le conoscenze e gli insegnamenti magici, tu eri già un mago. ‘Mago nato’, ha detto. Perciò ho pensato che una persona, per avere il Potere magico, prima deve avere un posto dove… metterlo. Uno spazio vuoto da riempire. E più grande è quel vuoto, maggiore è il Potere che ci può stare. Ma se non si arrivasse a ottenere il Potere, o il Potere fosse tolto, o consumato… il posto resterebbe.»
«Resterebbe il vuoto», disse Ged.
«’Vuoto’ è solo un modo per dirlo. Forse non è neppure quello giusto.»
«La potenzialità?» chiese Ged. Scosse la testa. «La possibilità di essere… di divenire?»
«Penso che ti sei trovato su quella strada, in quel preciso momento, perché ti sta succedendo quel tipo di cose. Non sei tu a farle succedere, non sei tu a causarle, non è stato il tuo Potere. Ma ti è successo, a causa di quel ‘vuoto’.»
Dopo qualche tempo, Ged osservò: «Non è molto diverso da quel che mi è stato insegnato a Roke quando ero bambino: che la vera magia sta nel fare solo quel che devi fare. Ma questo è ancora di più: non fare, ma essere spinto a fare».
«Non credo che sia così. Piuttosto, è l’origine da cui nascono le azioni giuste. Sei venuto a salvarmi la vita, hai colpito Tinca con il forcone. Questo è ‘agire’, certamente. Fare quel che doveva essere fatto.»
Ged rifletté a lungo su quelle parole, e alla fine le chiese: «È una cosa che ti è stata insegnata quando eri la Sacerdotessa delle Tombe?»
«No.» Sbadigliò leggermente, e si guardò attorno nell’oscurità. «Ad Arha veniva insegnato che per essere potente doveva sacrificare se stessa e altri. Uno scambio: dare per avere. E non posso dire che non fosse vero. Ma la mia anima non può vivere in quello spazio ristretto: una cosa per l’altra, dente per dente, vita per vita. C’è una libertà superiore a tutto questo. Superiore allo scambio, alla punizione, alla redenzione. Al di là di tutti gli equilibri e di tutti i patti c’è la libertà.»
«La porta tra di loro», citò Ged, a bassa voce.
Quella notte, Tenar sognò la porta della Creazione di Éa. Era una finestra piccola e bassa, di vetro grezzo, pesante, opaco e difettoso, nella parete occidentale di una vecchia casa sopra il mare. La finestra era sbarrata con il chiavistello. Lei voleva aprirla, ma c’era una parola o una chiave, qualcosa di cui si era dimenticata — una parola, una chiave, un nome — che bisognava usare per aprirla. Lei continuò a cercare dentro camere di pietra che diventavano sempre più piccole e più scure, finché non si accorse che Ged la teneva ferma e cercava di svegliarla dicendo: «È tutto a posto, cara, non c’è niente!»
«Non riesco a liberarmi!» gemette lei, abbracciandolo.
Ged cercò di calmarla, accarezzandole i capelli; tutt’e due si stesero di nuovo sulla schiena, e lui mormorò: «Guarda».
La luna era sorta. La sua luce bianca si rifletteva sulla neve ed entrava nella stanza, perché, anche se faceva freddo, Tenar non voleva chiudere le imposte. Tutta l’aria sopra di loro era luminosa. Il punto dove si trovava il letto era in ombra, ma pareva che il soffitto fosse un semplice velo tra loro e l’infinita, tranquilla, argentea distesa di luce.
A Gont fu un inverno di forti nevicate, che si protrasse a lungo. Ma il raccolto era stato abbondante, e c’era da mangiare per tutti, uomini e animali, e poco da fare, oltre che mangiare e tenersi al caldo.
Therru imparò la Creazione di Éa. Il giorno del Ritorno del Sole recitò il Canto dell’inverno e Le gesta del giovane re. Imparò a fare le torte, a usare l’arcolaio e a fare il sapone. Imparò il nome di tutte le piante che spuntavano sopra la neve e molte altre cose ancora di erbe e di parole, che Ged aveva appreso durante il breve apprendistato con Ogion e i lunghi anni alla scuola di Roke. Ma non presero dalla mensola del caminetto il libro delle Rune e quello dei Miti, né insegnarono alla bambina la Lingua della Creazione.