«No.» Fece una smorfia. «L’equipaggio è stato rimandato a casa. Gli uomini del re l’hanno sequestrata.»
«Ma… non era una nave pirata…»
«No.»
«Ma allora…?»
«Hanno detto che il capitano trasportava certe merci che loro cercavano», spiegò Scintilla, a malincuore. Era magro come sempre, ma sembrava più vecchio, era molto abbronzato, aveva i capelli lunghi, la faccia affilata come quella di Selce, ma ancor più dura.
«Dov’è il babbo?» chiese.
Tenar s’irrigidì.
«Non sei passato da tua sorella.»
«No», rispose lui, con indifferenza.
«Selce è morto tre anni fa», rispose lei. «Un colpo. Mentre era nei campi… al ritorno dal recinto delle pecore. L’ha trovato Rivochiaro.»
Scese il silenzio. Scintilla non sapeva che cosa dire, o non aveva nulla da dire.
Tenar gli mise davanti il piatto, e Scintilla cominciò a mangiare così avidamente che gli portò subito dell’altro cibo.
«Da quant’è che non mangi?»
Lui alzò le spalle e continuò a mangiare.
Tenar si sedette davanti a lui. Il sole della primavera inoltrata entrava dalla finestra di fronte al tavolo e illuminava l’ottone degli alari, nel focolare.
Finalmente, Scintilla spinse via il piatto.
«Allora, chi ha mandato avanti la fattoria?» chiese.
«Perché me lo chiedi, figliolo?» ribatté lei, gentile ma ferma.
«È mia», rispose, con un tono identico.
Dopo qualche istante, Tenar si alzò e portò via i piatti. «Hai ragione.»
«Tu puoi restare, naturalmente», disse Scintilla, con aria impacciata. Forse voleva scherzare, ma non era un uomo portato agli scherzi. «Il vecchio Rivochiaro è ancora qui?»
«Sono ancora qui tutti. E c’è un uomo chiamato Falco, e una bambina che ho preso con me. Qui, nella casa. Dovrai dormire in soffitta. Ti metto la scala.» Lo fissò. «Intendi rimanere, allora?»
«Potrei farlo.»
Anche Selce, per vent’anni, aveva risposto alle sue domande allo stesso modo: le aveva negato il diritto di rivolgergliele, con il sistema di non rispondere mai né sì né no; aveva conservato una libertà fondata sulla sua ignoranza; una libertà miserabile, angusta, pensava lei.
«Povero ragazzo», rifletté. «Il tuo equipaggio mandato a casa, tuo padre morto, ed estranei nella tua casa; tutto in un giorno. Ti occorrerà del tempo per abituarti. Mi dispiace, figlio. Ma sono contenta di vederti. Ho pensato spesso a te, in mare, nella tempesta, nell’inverno.»
Lui non disse niente; non aveva niente da offrire, ed era incapace di accettare. Stava per alzarsi, quando entrò Therru. Scintilla la fissò, immobilizzandosi. «Che cosa le è successo?» chiese.
«L’hanno bruciata. Questo è mio figlio, Therru. Te ne ho parlato: il marinaio, Scintilla. Therru è tua sorella, Scintilla.»
«Sorella!»
«Adottiva.»
«Sorella!» ripeté di nuovo Scintilla, e si guardò attorno, come per cercare un testimone, poi tornò a fissare la madre.
Lei lo fissò a sua volta.
Scintilla uscì, tenendosi lontano da Therru, che era rimasta immobile. Si sbatté la porta alle spalle.
Tenar fece per parlare a Therru e non ci riuscì.
«Non piangere», disse la bambina che non piangeva mai; si avvicinò a lei e le toccò il braccio. «Ti ha fatto male?»
«Oh, Therru! Abbracciami!» Si sedette con Therru sulle ginocchia, anche se la bambina cominciava a diventare un po’ pesante e non aveva mai imparato a stare bene in quella posizione. Ma Tenar la strinse e pianse, e Therru appoggiò la gota sfregiata a quella di Tenar, che gliela riempì di lacrime.
Ged e Scintilla fecero ritorno al crepuscolo, da lati opposti della fattoria. Scintilla aveva evidentemente parlato con Rivochiaro e doveva avere riflettuto sulla situazione, e Ged stava cercando di capire che cosa fosse successo. A cena si dissero poche parole, e anche quelle in tono cauto. Scintilla non si lamentò di non poter riavere la sua stanza, ma, da buon marinaio, salì agilmente la scaletta che portava in soffitta, e dovette trovare di sua soddisfazione il letto preparatogli dalla madre, perché non si fece più rivedere fino all’indomani mattina tardi.
Quando scese, volle fare colazione, convinto che qualcuno dovesse servirgliela. Suo padre era sempre stato servito da madre, moglie, figlia. Ed era forse da meno di lui? Tenar lasciò perdere; gli servì la colazione e poi sparecchiò, per tornare infine al frutteto, dove lei, Therru e Prunella erano intente a eliminare col fuoco un’invasione di bruchi che minacciava i frutti ancora verdi.
Scintilla si recò da Rivochiaro e da Tiff. E rimase quasi sempre con loro, con il passare dei giorni. I lavori pesanti, che richiedevano forza, e quelli con gli animali e nei campi, che richiedevano abilità, vennero svolti da Ged, Prunella e Tenar, mentre i due vecchi che erano vissuti lì per tutta la vita, gli aiutanti di suo padre, portarono in giro Scintilla, raccontandogli che facevano tutto loro, convinti di farlo e convincendo anche lui.
In casa, Tenar era sempre più triste. Solo quando era fuori, al lavoro, dimenticava la collera, la vergogna che le suscitava la presenza di Scintilla.
«È il mio turno», disse a Ged, con amarezza, nella loro stanza, debolmente illuminata dalla luce delle stelle che filtrava dalla finestra. «È il mio turno di perdere la cosa di cui andavo maggiormente orgogliosa.»
«Perché, che cosa hai perduto?»
«Mio figlio. Il figlio di cui non sono riuscita a fare un uomo. Ho fallito. Ho tradito me e lui.» Si morse il labbro, con lo sguardo perso nel buio.
Ged non cercò di discutere con lei, né di convincerla che si sbagliava. Chiese: «Credi che resterà qui?»
«Si. Ha paura di tornare in mare. Non mi ha detto tutta la verità sulla sua nave. Era terzo ufficiale. Suppongo che fosse implicato nel trasporto di merce rubata. Pirateria di bassa lega, ma la cosa non mi preoccupa più di tanto. Tutti i marinai di Gont sono dei mezzi pirati. Ma lui mi ha mentito sulla sua attività. È un bugiardo. È geloso di te. Un uomo disonesto e invidioso.»
«Un uomo spaventato, mi pare», disse Ged. «Ma non cattivo. E poi, la fattoria è sua.»
«Allora, che se la tenga! E che sia generosa con lui come lui lo è con sua…»
«No, cara», disse Ged, posandole la mano sulla bocca, «non dire parole cattive.» Ed era così sincero, cosi preoccupato, che la collera di Tenar ritornò a essere quello che era fondamentalmente, cioè amore.
«No», riprese Tenar, «non volevo maledire né lui né questo posto! Solo, mi vergogno, Ged! Sono desolata!»
«No, no. Cara, non m’importa di quel che pensa di me. Ma ti tratta molto male.»
«E anche Therru. La tratta come se… Mi ha detto: ‘Ma che cosa ha fatto, per avere un aspetto simile?’ Che cosa ha fatto lei, capisci!»
Ged le accarezzò lentamente i capelli, come faceva sempre: un gesto affettuoso che riusciva a dare serenità a tutt’e due.
«Potrei andare di nuovo in montagna con le capre», disse infine. «Cosi, qui le cose diventerebbero più semplici, almeno per te. Ma ci sarebbe il problema del lavoro.»
«Preferirei venirci anch’io.»
Lui continuò ad accarezzarle i capelli e parve riflettere sulla proposta. «Si potrebbe, penso», disse. «C’erano un paio di famiglie che pascolavano le pecore, sopra Lissu. Ma quando si arriva all’inverno…»
«Potremmo andare a lavorare in qualche altra fattoria. Io conosco il lavoro, e le pecore; tu conosci le capre, e sei svelto…»
«’Abile con il forcone’», mormorò Ged, e Tenar soffocò una risata.
L’indomani mattina, Scintilla si alzò presto perché andava a pescare con il vecchio Tiff. Fece colazione con loro, poi si alzò dal tavolo e disse, con più garbo del solito: «Vi porterò un mucchio di pesci per la cena».
Tenar, nel corso della notte, aveva preso alcune decisioni. Lo fermò: «Aspetta, dacci una mano a sparecchiare, Scintilla. Metti i piatti nel lavandino e versaci dell’acqua sopra. Li laveremo con i piatti della cena».