Goha posò il proprio bastone e quello di Therru contro la parete, vicino alla porta, e, tenendo per mano la bambina, bussò una volta.
Non ci fu risposta.
Goha aprì la porta. Il fuoco era spento, e restava solo qualche tizzone sotto la cenere grigia, ma nella lampada a olio posata sul tavolo ardeva ancora un minuscolo seme di luce, e dal pagliericcio sul pavimento, nell’angolo in fondo alla stanza, Ogion disse: «Entra, Tenar».
OGION
Goha mise a dormire la bambina sul pagliericcio nella nicchia a ponente. Riattizzò il fuoco. Poi si avvicinò al giaciglio di Ogion e si sedette a terra, a gambe incrociate.
«Non c’è nessuno che si prenda cura di te!» protestò.
«Li ho mandati via tutti», rispose il mago.
Aveva la faccia dura e cupa come sempre, ma i suoi capelli erano bianchi e radi, e la debole lampada non destava alcuna scintilla di luce nei suoi occhi.
«Hai rischiato di morire da solo», disse lei in tono d’accusa.
«Aiutami a farlo», rispose il vecchio.
«Non ancora», lo implorò lei, posando la fronte sulla mano del mago.
«Non questa notte», assentì lui. «Domani.»
Sollevò la mano e le accarezzò una sola volta i capelli: era tutta la forza che gli rimaneva.
Goha si risollevò. Il fuoco aveva attecchito. La sua luce danzava sulle pareti e sul basso soffitto, e faceva sembrare ancor più dense le ombre negli angoli della lunga stanza.
«Se arrivasse Ged…» mormorò il vecchio.
«L’hai mandato a chiamare?»
«Si è perduto», disse Ogion. «Una nube. Una nebbia che copre la sua area. Si è recato in Occidente. Portando con sé il ramo di sorgo. È entrato nella nebbia buia. Ho perso il mio falco.»
«No, no», mormorò lei. «Ritornerà.»
Tacquero entrambi. Il calore del fuoco cominciò a diffondersi fino a loro, e Ogion entrò in una sorta di dormiveglia, mentre Tenar accolse con piacere la possibilità di riposarsi dopo avere camminato per tutto il giorno. Si massaggiò i piedi e le spalle doloranti. Aveva dovuto portare in spalla Therru per gran parte della lunga salita finale, perché la bambina nel tentativo di stare al passo con lei si era stancata al punto di tremare di stanchezza.
Tenar si alzò, fece riscaldare dell’acqua e si tolse di dosso la polvere della strada. Scaldò un po’ di latte e mangiò il pane che trovò nella dispensa di Ogion, per poi tornare a sedere vicino a lui. Mentre il mago dormiva, lei continuò a meditare, guardando il suo viso e il fuoco e le ombre.
Ripensò alla ragazza che — molto tempo prima e in un luogo lontano — rimaneva tutta la notte seduta a riflettere; una ragazza in una stanza senza finestre, abituata a pensare a se stessa solo come a colei che era stata divorata, sacerdotessa e ancella dei poteri del buio. E alla donna che sedeva nel tranquillo silenzio della casa, mentre marito e figli dormivano, per pensare, per rimanere un poco sola. E alla vedova che aveva portato laggiù una bambina orribilmente ustionata, e che ora sedeva vicino a un moribondo, e che aspettava il ritorno di un altro uomo. Come ogni donna, come una donna qualsiasi, intenta a fare quel che fanno le donne. Ma Ogion non l’aveva chiamata con il nome dell’ancella, né con quello della moglie, né con quello della vedova. E neanche Ged l’aveva chiamata così, nell’oscurità delle Tombe. Né — più lontano ancora, prima ancora — sua madre, che lei ricordava solo come il tepore e il colore fulvo del fuoco, la madre che le aveva dato il nome.
«Tenar», mormorò. Dal fuoco, che era intanto arrivato a un ramo di pino ben stagionato, si levò una lingua di fiamma gialla e luminosa.
Ogion respirava a fatica e Tenar lo aiutò come poté, finché l’attacco d’asma non gli passò. Entrambi dormirono per qualche tempo e nel sonno Ogion mormorò strane parole. Una volta, in piena notte, il mago aveva esclamato, a voce alta: «Ti rivedo, finalmente. L’hai trovato?», come se avesse incontrato per strada qualcuno che conosceva. E anche un’altra volta, mentre Tenar era andata ad aggiungere legna al fuoco, il vecchio aveva parlato, ma adesso doveva trattarsi di un ricordo molto lontano, perché disse chiaramente, come avrebbe potuto dirlo un bambino: «Ho cercato di aiutarli, ma il tetto è crollato e li ha schiacciati tutti. È stato il terremoto». Tenar ascoltò. Anche lei conosceva il terremoto. «Ho cercato di aiutarli!» disse addolorato il bambino con la voce di vecchio, poi tornò ad ansimare per un altro attacco d’asma.
Alle prime luci dell’alba, Tenar venne destata da un suono che a tutta prima le parve quello del mare. Era un grande fruscio d’ali. Uno stormo d’uccelli volava basso sopra di loro, ed era così numeroso che le loro ali fecero tremare i vetri della finestra e le loro ombre la oscurarono. A quanto vide la donna, fecero un solo giro al disopra della casa, e poi se ne andarono. Non emisero né stridi né richiami, e lei non avrebbe saputo dire che genere di uccelli fossero.
Quella mattina giunsero alcune persone dal villaggio di Re Albi, a sud della casa di Ogion. Giunsero una pastorella, poi una donna a prendere il latte delle capre di Ogion, poi altre a chiedere come stesse il mago. Zia Muschio, la strega del villaggio, tastò il bastone di nocciolo e quello di ontano vicino alla porta, e diede speranzosamente un’occhiata all’interno, ma neppure lei si azzardò a entrare. Ogion brontolò dal suo giaciglio: «Mandali via! Tutti!»
Pareva un poco più in forze, meno sofferente. Quando la piccola Therru si svegliò, il mago le parlò nel modo asciutto, gentile e pacato che Tenar ricordava. La bambina andò a giocare al sole, e il mago chiese a Tenar: «Come la chiami?»
Ogion conosceva la Lingua Vera della Creazione, ma non aveva mai imparato la lingua di Karg.
«Therru significa fiamma, incendio», rispose Tenar.
«Ah, ah», annuì il mago, e gli brillarono gli occhi. Aggrottò la fronte e per un attimo parve cercare le parole più adatte. «Impareranno a temerla…» disse infine.
«La temono già adesso», rispose Tenar, con amarezza. Il mago scosse la testa.
«Insegnale, Tenar», disse in un bisbiglio. «Insegnale tutto!… Non Roke. Hanno paura… Perché ti ho lasciata andare via? E perché te ne sei andata? Per portarla qui… troppo tardi?»
«Sta’ calmo, sta’ calmo», lo pregò lei, teneramente, perché Ogion faticava a trovare sia le parole sia il respiro. Lui scosse la testa e ansimò:
«Insegnale!» E rimase immobile.
L’infermo non volle mangiare, e bevve solo qualche sorso d’acqua. Poi, per gran parte del giorno, continuò a dormire. Svegliandosi nel tardo pomeriggio, disse: «Ora, figlia», e si rizzò a sedere.
Tenar gli prese la mano e gli sorrise.
«Aiutami ad alzarmi.»
«No, no.»
«Si», insisté lui. «Voglio andare fuori. Non posso morire qui dentro.»
«Dove vuoi andare?»
«In qualsiasi posto. Ma, se possibile, sul sentiero della foresta», rispose. «Il faggio vicino al pascolo.»
Quando vide che era in grado di alzarsi e che era deciso a uscire, Tenar lo aiutò. Insieme arrivarono alla porta e lì Ogion si fermò a esaminare l’unica stanza di cui era costituita la sua abitazione. Nell’angolo a destra della porta era appoggiato il suo lungo bastone, che luccicava debolmente. Tenar fece per prenderglielo, ma il vecchio scosse la testa. «No», disse. «Non quello.» Si guardò nuovamente attorno, come per cercare qualcosa. «Andiamo», disse infine.
Quando varcò la soglia e, con il vento dell’ovest che gli soffiava sul viso, posò l’occhio sul lontano orizzonte, mormorò: «Bene, bene…»
«Faccio venire qualcuno dal villaggio; prepareranno una lettiga e ti porteranno», disse Tenar. «Tutti sono ansiosi di aiutarti.»